A Sant’Anna di Stazzema, esattamente 76 anni fa, il 12 agosto del 1944, fu commesso uno degli eccidi più spaventosi della guerra di liberazione. Tornarci oggi, significa ridare la dimensione reale ad un episodio che, finché i rullii della guerra sono o appaiono lontani, viene ammantato dalle liturgie commemorative di cui spesso si finisce per perdere il vero senso. Il senso e il monito della storia che può ripetersi.
Andare a Sant’Anna nel 2022, con una guerra alle porte, quella dell’Ucraina, di quell’Europa e di quell’era sicura che si credeva ormai eterna, assume un significato totalmente nuovo, specie alla luce delle atrocità commesse a mano a mano che osservatori internazionali neutrali sono giunti nelle zone di battaglia, come a Bucha. Questo è stato il senso del pellegrinaggio. Capire, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanto ci sono costate la pace e la democrazia e quanto può costarci custodirle e proteggerle oggi, specie in questi tempi foschi.
Quando si arriva a Sant’Anna, compare a mezza costa uno sparuto gruppo di case che non fanno assomigliare affatto la vera Sant’Anna a quella del film di Spike Lee Miracolo a Sant’Anna, girato prevalentemente a Colognora di Pescaglia per le riprese ambientate nel centro del paese. Proseguendo ancora, si arriva davanti alla chiesetta di Sant’Anna, luogo del massacro, chiesetta in cui è stato realmente ambientato l’evento nel film. La chiesa di Sant’Anna è veramente piccola ma, come sempre le chiese sperdute dei nostri Appennini, nasconde all’interno dei piccoli tesori. Pensare che fuori dal suo portone, furono uccise a colpi di mitra dai tedeschi, in maniera crudele e premeditata, 560 tra donne, anziani e bambini, lascia un senso di annichilimento che rende impossibile elaborare quanto accaduto. Non entrerò nella cronistoria dell’evento o nell’escatologia, cioè nella sequenza di eventi che hanno preceduto il massacro, internet e le librerie sono piene di libri sull’argomento. Basti sapere che le persone che si erano rifugiate a Sant’Anna si ritenevano al sicuro perché era sito in una delle c.d. zone bianche (aeree neutrali dove potevano rifugiarsi gli sfollati).
Ad un certo punto, Sant’Anna si è trovata nei dieci chilometri dalla linea gotica entro i quali, tutti gli abitanti avrebbero dovuto, su ordine diretto di Hitler, essere evacuati. Ciò non accadde, e anche le motivazioni sono controverse, lascio che ognuno si documenti al riguardo. Il risultato, fu che i tedeschi radunarono davanti al portone della chiesa, tutti coloro che si trovavano in paese, compresi i bambini rifugiatisi nella scuola e furono passati per le armi senza pietà, con il mitra finché non rimasero praticamente tutti falciati dai proiettili che colpivano a caso in mezzo alla folla di persone.
Foto di Paolo Maggioni Conte, chiesa di sant'Anna
Ho provato ad immaginare per quanto tempo quei mitra abbiano dovuto sparare, per abbattere 560 persone, casa per casa, uccidendole nei modi più impensabili, fracassando loro il cranio (due donne furono ritrovato così denudate), impiccandoli, bruciandoli addirittura con il lanciafiamme per poi radunarli in massa davanti ad una chiesa e crivellarli a colpi di mitra. Non è possibile immaginarlo, si può solo errare da una parte all’altra del paese, smarriti, udendo l’eco spettrale delle mitragliate, le urla e le colline boscose dei dintorni farcite di inseguimenti e spari e con ottundimento incappare nei segni reali del massacro, di targhe commemorative.
Foto di Paolo Maggioni Conte del pannello sulle vittime più piccole, posto nel museo della resistenza
C’è invece un luogo dove è possibile mettere insieme tutti i cocci, i frammenti sfilacciati di quel tragico vissuto, sparpagliati tra alberi mura diroccate e angoli ciechi: è il museo della resistenza, insediato nella vecchia scuola del paese. Con quanto sacrificio deve essere stato progettato, preparato e costruito, lo si capisce dallo sforzo artistico di renderlo moderno e multimediale. Domina il mobilio chiaro e minimalista e tutto appare coerente, ordinato e chiaro, malgrado tutta la storia, come detto, è stata un convulso susseguirsi di eventi disconnessi e brutali.
Foto di Paolo Maggioni Conte, il museo della Resistenza interno
Nel museo, appaiono le vittime che possono finalmente dare un volto a quei frammenti, vissuti caoticamente all’esterno, umanizzando là dove possibile, quella disumanità incomponibile, quell’indistricabile coacervo di schegge taglienti, frammenti di roccia mancanti, frasi di dolore e di ricordi, per riordinare e deporre le urla di quelle persone in una morte dolce a cui non hanno avuto diritto nella storia. Ecco, sì, il compito di quello splendido museo, è di dare per sempre un giaciglio sicuro, posato, silenzioso ad un evento che fu farcito di spari, urla, fracassamenti e suppliche. E come se a ciascuno, in quel terribile giorno, fosse stato assegnato “il privilegio” di morire in modo personalizzato.
L’eccidio di Sant’Anna, secondo le testimonianze del libro Versilia, la strage degli innocenti di Giorgio Giannelli, non fu una rappresaglia per la sparuta presenza di qualche decina di partigiani, ma fu un atto terroristico contro la resistenza popolare che aveva apertamente disubbidito a Kesserling di deportare 40.000 persone verso la provincia di Parma (sala Baganza), dove non avrebbero potuto trovare la benché minima accoglienza.
Ricordiamo che gli follati, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non erano provenienti solo dai paesi limitrofi di tutta la zona, ma venivano anche da città come Genova, La Spezia, Napoli, Castellammare di Stabbia e poi Pavia, Livorno, Massa e così via.
A Sant’Anna l’eccidio avvenne in sole tre ore ed in un’unica frazione di seicento abitanti, sfollati compresi, e tra le sue vittime si contano quasi esclusivamente donne, bambini e anziani. Non c’erano partigiani per il semplice fatto che i partigiani lì non c’erano e non c’era stata nessuna battaglia con i tedeschi.
Foto di Paolo Maggioni Conte , la Valle di sant'Anna di Stazzema
In quei giorni, come nei secoli precedenti, gi abitanti erano impegnati al lavoro nei campi, mentre le pecore e qualche mucca erano al pascolo. I tedeschi non erano ancora saliti al paese e questo sembrava offrire un riparo sicuro alla gente che nel frattempo cominciava a popolarlo dalla pianura.
Erano rifugiati, provenienti dai bombardamenti di La Spezia, Livorno, Pisa, Genova e persino Napoli, cui erano seguiti gli ordini di sfollamento del comando tedesco. Pochi giorni dopo il 30 luglio, partigiani e tedeschi si erano scontrati sul Monte Ornato, e i tedeschi avevano appiccato il fuoco a casolari e capanne della zona, uccidendo vecchi e malati impossibilitati a fuggire. Poco dopo, si sparse la voce che Sant’Anna da zona bianca, zona in cui non fosse in vigore alcun obbligo di sfollamento, fosse stata dichiarata in zona nera, cioè da evacuare, ma non venne seguito, perché nel frattempo alcuni paesani di ritorno da Stazzema avevano rassicurato gli abitanti di Sant’Anna che il borgo non era compreso nello sfollamento. In quei giorni salì il feldmaresciallo Kesselring e dopo di lui arriva, il 9 agosto 1944 Walter Reder, al comando del 16° reparto esplorante granatieri corazzati. Il resto è storia. E’ inutile ricordare che l’eccidio avvenne anche grazie all’aiuto di collaborazionisti fascisti. Al termine della guerra ci vollero anni per avere giustizia e le indagini e i processi andarono avanti per decenni.
Foto di Paolo Maggioni Conte, una delle tante foto d'epoca all'interno del museo
Cosa può insegnarci Sant’Anna sulle moderne stragi, come quella di Bucha e Mariupol?
Prima di tutto, di non credere mai alla storia delle due propagande. E’ vero che ciascuna parte belligerante si “macchia di propaganda”. Ma c’è una bella differenza tra la propaganda del nemico sterminatore e quella del nemico che si difende.
Quale delle due è più credibile secondo voi? In quest’ultima guerra si sta insinuando il metadone del relativismo, che tende a negare che possa esserci una ragionevole verità delle cose, anche di fronte all’evidenza. Viene diffuso subdolamente dalle correnti cospirazioniste, appoggiate da coloro che sostengono il regime di Putin senza avere mai il coraggio di affermarlo apertamente. Allora ricorrono allo stratagemma del depistaggio dialettico ed ermeneutico. Il gioco è semplice, si costruiscono dei cerchi concentrici sempre più ampi, partendo da quello centrale costituito da un fatto verosimilmente incontestabile. Prendiamo l’eccidio di Bucha. Se arrivano le immagini, ecco che i manipolatori affermano che le immagini possono essere false, che si possa addirittura trattare di una messinscena. Il punto di partenza viene già avvelenato dal sospetto (che essi spacciano per necessità di verifica). Una volta accertato che non si tratti di immagine false (e già questo occupa giorni, settimane di dibattici avvelenati estenuanti che confondono ulteriormente la ragione), essi ti conducono verso il secondo cerchio più esterno e ancora un passo più lontano dal centro. In questo cerchio, cercheranno di dire che non vi è certezza su chi sia (accertato che il fatto è reale) il vero responsabile. Se fossero gli invasi, cioè le vittime, ad aver ucciso i propri civili per gettare fango sugli invasori? Infine, il cerchio magico, quello più esterno, dove non solo l’aggressore è una vittima, ma il vero aggressore è occulto, astratto intangibile. Ecco che un eccidio diviene un fatto irreale, improbabile, finanche metafisico.
Si è partiti da chi fosse realmente l’aggressore e si arriva, per cerchi concentrici inversi a negare la paternità di un eccidio. Folle.
Anche in passato, compreso l’eccidio di Sant’Anna, la propaganda dell’aggressore cercò di ingannare la verità dei fatti. Ci furono molti tentativi, di imputare ai partigiani, quello che invece era opera dei nazifascisti.
C’è poi un altro aspetto grave. Una versione esponenziale dei cerchi concentrici, che afferma l’inutilità ad aiutare l’offeso dall’aggressore. Che questo non farebbe altro che procrastinare la violenza, la resistenza e quindi la virulenza dell’aggressore. Si trattano tragedie umane con il microscopio dell’entomologo. In altre parole, lasciate che l’organismo si arrenda all’elemento patogeno, perché usando tachipirine e antibiotici, se ne prolungherebbe la sofferenza e l’agonia.
Anche allora, come oggi, si falsificarono le notizie.
Basta leggere cosa scrisse “Il Resto del Carlino” l’11 ottobre del ’44 sull’eccidio di Marzabotto-Monzuno e Grizzana, in cui in poco meno di 10 giorni furono uccise 1.830 persone:
Le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra, assicuravano fino a ieri che nel corso di una operazione di polizia contro una banda di fuori legge, ben centocinquanta fra donne, vecchi e bambini erano stati fucilati da truppe germaniche di rastrellamento nel comune di Marzabotto... Qui trovate il resto dell'articolo.
Il problema della verità è che non usa lo stesso orologio della menzogna; la menzogna è fulminea e avvelena subito i pozzi, alla verità ci vogliono anni per emergere e dire la sua definitiva. Ma alla fine vince quasi sempre, ce lo insegnano persone straordinarie come Ilaria Cucchi.
Per Marzabotto, ad esempio, si arrivò addirittura nel 2007 per mettere una parola fine sulla strage:
si legge nella sentenza che "l’eccidio fu freddamente pianificato a tavolino, sulla base della arbitraria e ingiusta equiparazione tra civili e partigiani. Le violenze sui civili inermi iniziarono ben prima che i partigiani della Stella Rossa accennassero una pur minima resistenza. Quale 'necessità' vi era di sterminare i vecchi, gli invalidi e i bambini più piccoli? La furia nazista non operò alcuna distinzione tra le persone. Gli ordini impartiti erano chiari: uccidere tutti e distruggere tutto".
Chi sostiene oggi, che il pericolo autoritario nel nostro paese sia solo la solita isteria storica di qualche ben pensante comunista, si sbaglia. La storia parla con la memoria, gli irresponsabili col vento. Sono tra quelli che temono l’esito delle prossime elezioni del 25 settembre, perché noto che da una parte si usano gli stessi subdoli tatticismi propagandistici che usarono personaggi come Hitler: a livello internazionale rassicurava sulle sue intenzioni pacifiche, nei circoli ristretti e nei comizi interni inveiva ferocemente contro gli ebrei e contro tutte le minoranze. Come è accaduto con la Meloni al convegno di Vox (un gruppo di estremisti neo-falangisti), nel quale si lanciavano, senza alcun pudore, veri e propri anatemi contro le minoranze di LGTB e tutti i presunti nemici di patria e famiglia. Perché dovremmo fidarci, ora abbiamo la memoria a dirci come possono finire queste cose.
La foto di copertina è di Paolo Maggioni Conte, scattata nel museo della resistenza di Sant'Anna, l'opera bronzea del 2008 è dello scultore Giuliano Vangi.