A sei mesi dall'inizio del suo secondo mandato, Donald Trump si trova esattamente dove aveva giurato di non voler essere: sull'orlo di un nuovo conflitto militare in Medio Oriente. Il recente attacco di Israele contro l'Iran, avallato nei fatti dalla Casa Bianca, ha creato una crisi politica e strategica che potrebbe ridefinire l'equilibrio interno del Partito Repubblicano e, più in generale, la traiettoria geopolitica degli Stati Uniti.

Quello che sta emergendo non è solo il rischio concreto di un'escalation regionale, ma anche — e soprattutto — una frattura ideologica profonda all'interno dello stesso campo trumpiano. Trump si trova ora schiacciato tra due forze contrapposte: da un lato la vecchia lobby neoconservatrice, ancora potente nei palazzi di Washington; dall'altro la base populista "America First", che lo ha portato alla Casa Bianca proprio per voltare pagina rispetto alle "guerre infinite" degli anni Bush.


L'eredità tossica dei neocon

Durante la campagna 2024 Trump aveva sfruttato il malcontento per le guerre fallimentari in Iraq e Afghanistan, puntando il dito contro i fautori della politica interventista, dai Bush ai Cheney. Ha saputo capitalizzare l'esaurimento psicologico e finanziario di un paese che, vent'anni dopo l'11 settembre, ha visto sfumare migliaia di vite umane e trilioni di dollari senza ottenere alcun vantaggio strategico duraturo.

Non è un caso che, durante i comizi, Trump abbia ripetutamente attaccato Kamala Harris per la sua vicinanza a Liz Cheney, simbolo di quella vecchia destra militarista che oggi la sua base rifiuta apertamente. Ma proprio ora, mentre Israele bombarda l'Iran e la tensione sale, emergono le vecchie dinamiche che la narrativa trumpiana aveva cercato di archiviare.


L'ambiguità di Trump

Il comportamento di Trump in questa crisi è incredibile. Mentre a parole continua a parlare di diplomazia con Teheran — dichiarando persino di voler "aiutare l'Iran a prosperare" — nei fatti non ha mosso un dito per bloccare i raid israeliani. Secondo alcuni analisti, la Casa Bianca ha deliberatamente tenuto un doppio binario: retorica pacificatrice per l'opinione pubblica americana, mano libera a Netanyahu per agire militarmente.

Questo approccio opportunista non solo rischia di fallire, ma potrebbe generare l'esatto scenario che la dottrina "America First" intendeva evitare: un'escalation incontrollabile che coinvolgerebbe direttamente gli Stati Uniti in un nuovo conflitto regionale. Un rischio che la base trumpiana sta cominciando a percepire in modo molto netto.


La frattura interna al trumpismo

Personaggi centrali del mondo MAGA hanno già preso le distanze dalla strategia di Trump. Tucker Carlson ha parlato senza mezzi termini di "governo affamato di guerra" riferendosi a Israele e ha esortato Washington a non lasciarsi trascinare. Rand Paul ha ricordato come gli elettori abbiano scelto Trump per uscire dal pantano delle guerre inutili. Marjorie Taylor Greene e Charlie Kirk hanno ribadito che l'appoggio incondizionato a Israele non rappresenta più la volontà della base conservatrice.

I numeri confermano questa tendenza. Secondo un sondaggio Pew Research, il 50% dei repubblicani sotto i 50 anni ha un'opinione negativa di Israele: un dato impensabile anche solo dieci anni fa. È il segnale di una transizione generazionale che sta minando le fondamenta della storica alleanza USA-Israele all'interno della destra americana.


Il dilemma strategico degli Stati Uniti

Da un punto di vista geopolitico, il rischio di una guerra aperta con l'Iran rappresenta un salto nel vuoto. L'esperienza di Iraq e Afghanistan ha dimostrato quanto sia complesso, costoso e infruttuoso intervenire militarmente in Medio Oriente senza obiettivi realistici. In più, l'Iran non è l'Iraq del 2003: Teheran dispone oggi di una rete di alleanze e milizie regionali (Hezbollah, milizie sciite in Iraq, Houthi in Yemen) che potrebbero destabilizzare l'intero quadrante mediorientale in tempi rapidissimi.

Come sottolinea Jon Hoffman del Cato Institute, esiste "un rischio enorme che gli Stati Uniti vengano trascinati in questa guerra", nonostante il dichiarato intento opposto della dottrina America First. E proprio qui si manifesta il paradosso di Trump: rischia di essere inghiottito dalla stessa macchina interventista che aveva promesso di smantellare.


La crisi iraniana sta diventando il primo vero banco di prova ideologico per il secondo mandato di Trump. A differenza del passato, ora il dissenso arriva dall'interno della sua stessa coalizione. Se continuerà a inseguire la vecchia politica estera basata su alleanze incondizionate e interventi militari, potrebbe perdere il sostegno di quella parte di elettorato populista e isolazionista che rappresenta il cuore pulsante del trumpismo odierno.

Non è solo una questione di guerra o di pace. È, più in profondità, una resa dei conti su cosa debba essere davvero l'America First nel 2025: un ritorno ai vecchi schemi imperiali, o una reale rottura con il passato interventista americano?