Diciamolo chiaramente: chi si augurava un flop è rimasto deluso. Giorgia Meloni ha fatto centro anche stavolta. La sua visita negli Stati Uniti, tanto attesa quanto chiacchierata, si è trasformata in un successo pieno. E non lo dicono solo i suoi sostenitori, ma lo dimostra l’accoglienza ricevuta da Donald Trump, che l’ha accolta come si fa con un alleato di primo piano, non come una semplice premier europea.
Trump non ha risparmiato elogi: «È diventata un’amica», «è uno dei veri leader del mondo», «è amata e rispettata da tutti». Parole che, in diplomazia, contano eccome. Perché al di là delle foto e delle strette di mano, è il tono che definisce la sostanza di un rapporto. E il tono, in questo caso, è stato quello della stima vera, non di circostanza.
Non è solo una questione di feeling personale – che pure c’è, è evidente – ma di visione politica condivisa.
La lotta contro l’ideologia woke, la difesa dei confini, il contrasto alla droga, la centralità della storia e dell’identità: su questi temi Meloni e Trump parlano la stessa lingua.
Ed è una lingua che, piaccia o meno, trova sempre più ascolto su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Ma non si è trattato solo di sorrisi e ideali condivisi. Meloni è tornata a casa con un risultato concreto: un vertice USA-UE da tenersi in Italia. Un impegno importante, che rafforza la posizione dell’Italia nel quadro internazionale e restituisce centralità a Roma nei rapporti con Washington e Bruxelles.
I detrattori diranno che non è una notizia. Che Trump è imprevedibile, che la visita è solo propaganda. Ma non si può ignorare il peso simbolico e strategico di un leader italiano accolto come “ambasciatore dell’Europa”, come figura-ponte tra due mondi. Non succede spesso.
Non sono mancati i temi concreti: dazi, investimenti, energia, difesa. Meloni ha parlato chiaro, cercando un punto di equilibrio sul commercio e ribadendo l’impegno italiano ad aumentare la spesa militare al 2% del Pil. Ha annunciato dieci miliardi di investimenti italiani negli USA e rilanciato il ruolo dell’Italia nelle sfide energetiche, ha annunciato 10 miliardi di investimenti italiani negli USA e sottolineato la necessità di rafforzare le importazioni di Gas naturale liquido e la cooperazione sul nucleare. Nessuna timidezza, nessun passo indietro.
E sulla guerra in Ucraina, la premier è stata netta: la Russia è l’aggressore, e serve unità per arrivare alla pace. Una posizione solida, che conferma la sua capacità di muoversi su un crinale delicato, senza cedere a pressioni né interne né esterne.
Insomma, Meloni ha mostrato, ancora una volta, di saper stare sullo scenario internazionale con disinvoltura e autorevolezza. E mentre a sinistra si arrampicano sugli specchi per sminuire il tutto, il centrodestra si rafforza anche sul piano della politica estera.
Una visita che ha fatto rumore, sì. Ma non quello che speravano certi commentatori: è il rumore di una leadership che cresce e che, volenti o nolenti, va presa sul serio.
L’elemento che colpisce è la sicurezza e l’autorevolezza con cui la premier ha condotto l’intera missione: nessuna sudditanza, nessun timore, ma una gestione equilibrata, con una narrazione identitaria che non sfocia mai nel provincialismo. Lo dimostra anche la scelta simbolica di ricordare, nella data del 17 aprile, l’anniversario dell’accordo che permise a Colombo di partire per il Nuovo Mondo, come contrappunto alla cultura della cancellazione e all’ideologia woke.
È legittimo che l’opposizione provi a minimizzare. Fa parte del gioco politico. Ma ignorare il peso e la portata di questa visita rischia di essere miope. Perché Giorgia Meloni – piaccia o meno – è oggi una delle figure più riconoscibili ed autorevoli nel panorama europeo. E il modo in cui è stata accolta da Trump lo dimostra una volta di più.
Il viaggio negli USA ha rafforzato non solo la sua immagine personale, ma anche la percezione dell’Italia come attore centrale nello scacchiere occidentale. Il resto, francamente, sono polemiche da salotto.