TOKIO - Il quinto round negoziale tra Giappone e Stati Uniti si è chiuso a Washington con un comunicato misurato, nel tono e nella sostanza. Ryosei Akazawa, incaricato del dossier per conto del Ministero dell’Economia, ha parlato di “progressi verso un accordo”, precisando subito dopo che “non è stato ancora trovato un punto d’intesa”. La formula, già collaudata in altre trattative asimmetriche, sembra concepita per guadagnare tempo più che per definire una soluzione.
Sul tavolo c’è l’intero impianto dei dazi imposti dall’amministrazione Trump, a partire dalla tariffa base del 10% già applicata sulle importazioni giapponesi. A questa si è aggiunto, ad aprile, un ulteriore dazio “reciproco” del 24%, annunciato e poi sospeso senza scadenza definita. Il comparto più esposto resta quello dell’automotive: una possibile imposta del 25% sui veicoli giapponesi destinati al mercato statunitense avrebbe un impatto diretto su circa otto milioni di lavoratori in Giappone, ovvero l’8% dell’occupazione nazionale, secondo le stime interne del METI.
In apparenza, la questione è tecnica. In realtà, le implicazioni sono apertamente strategiche. Il Giappone, primo investitore asiatico negli Stati Uniti, si trova ora nella posizione di dover rivendicare — in punta di diplomazia — ciò che fino a ieri era dato per scontato: l’accesso stabile e non discriminatorio al mercato nordamericano. Tokyo chiede non un aggiustamento, ma la cancellazione integrale di tutte le misure annunciate o sospese. Una richiesta netta, che mette alla prova il linguaggio doppio della “reciprocità” invocata da Trump.
Il vertice G7 in programma a metà giugno in Canada potrebbe offrire l’occasione per un incontro diretto tra il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba e il presidente americano. Ma secondo fonti riservate della delegazione nipponica, non è scontato che l’incontro possa produrre un documento condiviso. Le differenze di approccio restano sostanziali: Tokyo opera entro i vincoli multilaterali del WTO, mentre Washington agisce secondo la logica bilaterale e la leva politica contingente. Si segnala, inoltre, che nessuna delle misure tariffarie notificate da Washington ha finora seguito i canali ufficiali di consultazione presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Un dettaglio procedurale tutt’altro che secondario, che apre a possibili contenziosi giuridici in sede internazionale.
Nel frattempo, la macchina negoziale continua a girare. Ma il ritmo sembra più quello di un motore in folle che quello di un accordo in fase avanzata. E l’impressione, sempre più diffusa tra i tecnici giapponesi, è che i dazi siano solo la superficie visibile di una ridefinizione dei rapporti tra alleati, in cui la gerarchia viene riaffermata non con i trattati, ma con le tariffe. Il linguaggio diplomatico resta educato. Ma nessuno, nelle stanze operative, esclude che la prossima stretta possa arrivare quando le telecamere saranno spente.