Il lavoro come dono 


Il “lavoro come dono” è espressione evocativa di un atteggiamento o disposizione d’animo, propria di chi accoglie il lavoro come un bene, con gratitudine (così come del resto va accolta e vissuta la vita, di cui il lavoro è parte importante), e nel lavoro dona se stesso, con spirito di servizio.
Il dono di una prestazione eccellente è qualcosa che va al di là di ciò per cui si è pagati. Esso è il prodotto di due fattori: la qualità delle competenze professionali e la motivazione a impiegarle a servizio dei destinatari della prestazione.
Un triplice dono: - il dono di svolgere al meglio, con competenza e con passione, la prestazione che ci si attende da lui, ossia il dono di un “bene/servizio economico” volto a soddisfare in modo eccellente il bisogno del cliente/utente (esterno o interno) a cui è destinato;
- il dono di costruire rapporti corretti e cordiali con tutte le persone con cui interagisce o entra in contatto per motivi di lavoro, ossia il dono di un “bene relazionale”;
- il dono di contribuire a orientare l’azienda verso l’obiettivo di piena funzionalità e vitalità, coerentemente con la missione produttiva sua propria, ossia il dono di contribuire a fare dell’azienda un bene quanto mai prezioso per i suoi molteplici interlocutori e per la società tutta, vero e proprio “bene pubblico”.
Di quali leve può disporre il management per incoraggiare i collaboratori a fare un buon lavoro, in piena sintonia con tale funzione obiettivo? In primo luogo, esso è chiamato a dare il buon esempio.
In secondo luogo, il management deve strutturare e gestire sapientemente e coerentemente l’ampia gamma di sistemi operativi (o meccanismi organizzativi) di cui può disporre.
Ragioni che dovrebbero indurre ad incoraggiare i collaboratori a vivere il lavoro come dono: per un certo tipo di management, che tra i suoi modelli mentali ha ben chiaro: (i) che suo preciso dovere è inserire e mantenere l’azienda su un sentiero di sviluppo duraturo dotandosi di una funzione obiettivo in cui si compongono, armonizzandosi, una molteplicità di obiettivi (di soddisfazione delle molteplici esigenze economico-aziendali, sociali e ambientali, di breve e di medio-lungo termine ecc.); (ii) che i collaboratori hanno enormi potenzialità suscettibili di essere poste al servizio del bene dell’azienda. Per contro, non vi è nessuna ragione che possa indurre il management ad intraprendere un cammino orientato dalla prospettiva del lavoro come dono se, e fin tanto che: rimane ancorato ad una funzione obiettivo basata su un obiettivo singolo (come quello del profitto o della creazione di valore azionario o della crescita dimensionale a tutti i costi); ha una concezione riduttiva della “motivazione a produrre” (riconducibile alla Teoria X di D. McGregor, 1960); non percepisce i propri dipendenti come persone dalle enormi potenzialità suscettibili di esplicarsi al servizio del bene dell’azienda.
Un triplice dono
Chi nel lavoro dona se stesso, a ben vedere, liberamente dà qualcosa che eventualmente potrebbe anche essergli richiesto, incoraggiandolo con opportuni incentivi, ma che certamente non gli si può comandare. Questo qualcosa, che sta a lui decidere se dare o no nella sua vita di lavoro in azienda, si inscrive - in una misura più o meno significativa in relazione alle variabili di contesto e alle caratteristiche professionali e umane del lavoratore - in un triplice dono (Coda, 2003):
- il dono di svolgere al meglio, con competenza e con passione, la prestazione che ci si attende da lui, ossia il dono di un “bene/servizio economico” volto a soddisfare in modo eccellente il bisogno del cliente/utente (esterno o interno) a cui è destinato;
- il dono di costruire rapporti corretti e cordiali con tutte le persone con cui interagisce o entra in contatto per motivi di lavoro, ossia il dono di un “bene relazionale”;
- il dono di contribuire a orientare l’azienda verso l’obiettivo di piena funzionalità e vitalità, coerentemente con la missione produttiva sua propria, ossia il dono di contribuire a fare dell’azienda un bene quanto mai prezioso per i suoi molteplici interlocutori e per la società tutta, vero e proprio “bene pubblico”.
“Lavoro come dono” e felicità
Una felicità all’insegna del quieto vivere, così come una felicità identificata con il piacere derivante dal successo – in termini di prestigio, potere, ricchezza – mal si concilia con la disposizione interiore a fare del proprio lavoro un dono. Infatti, in tali ipotesi, non vi sarà presumibilmente alcuna disponibilità a offrire una prestazione eccellente (nel primo caso), oppure vi sarà a condizione di averne un congruo riconoscimento e un adeguato tornaconto (nel secondo caso). Ugualmente, le relazioni saranno gestite in modo strumentale ai propri obiettivi, di preservare la “tranquillità” nel primo caso, di rafforzare la propria personale posizione nel secondo. Lo stesso dicasi per la ricerca del bene comune: sarà, questo, obiettivo non meritevole di essere preso in considerazione, nell’un caso, per motivi di quieto vivere, nell’altro se percepito come pregiudizievole per il proprio successo. Se, invece, il tipo di felicità perseguita è la felicità di crescita – sul piano delle capacità professionali, della qualità dei rapporti umani e della ricerca del bene comune –, allora il vivere il lavoro come dono non è affatto incompatibile con la logica di scambio incorporata in un contratto di lavoro retribuito. Anzi, proprio tale relazione contrattuale offre al lavoratore l’opportunità di sperimentare la propria realizzazione umana e professionale nel momento in cui dà il meglio di sé nella prestazione lavorativa, partecipa e contribuisce a relazioni autenticamente umane, concorre ad indirizzare l’azienda in conformità con la sua valida ragione d’essere.
Quanto si è detto in merito al triplice dono implicito nel “donarsi nel lavoro” lascia intendere come la prospettiva del “lavoro come dono” indica la via per fare davvero un “buon lavoro” nel bene inteso interesse aziendale e, in quanto tale, è rilevante non solo per lo sviluppo personale di chi lavora, ma anche per lo sviluppo dell’azienda per cui si lavora. L’interrogarsi sulle ragioni che dovrebbero indurre ad incoraggiare i collaboratori a vivere il lavoro come dono potrebbe perciò apparire come un esercizio del tutto superfluo. In effetti, ciò è vero per un certo tipo di management, che tra i suoi modelli mentali ha ben chiaro: (i) che suo preciso dovere è inserire e mantenere l’azienda su un sentiero di sviluppo duraturo dotandosi di una funzione obiettivo in cui si compongono, armonizzandosi, una molteplicità di obiettivi (di soddisfazione delle molteplici esigenze economico-aziendali, sociali e ambientali, di breve e di medio-lungo termine ecc.); Per contro, non vi è nessuna ragione che possa indurre il management ad intraprendere un cammino orientato dalla prospettiva del lavoro come dono se, e fin tanto che: rimane ancorato ad una funzione obiettivo basata su un obiettivo singolo (come quello del profitto o della creazione di valore azionario o della crescita dimensionale a tutti i costi); non percepisce i propri dipendenti come persone dalle enormi potenzialità suscettibili di esplicarsi al servizio del bene dell’azienda.
In che modo incoraggiare i collaboratori a vivere il lavoro come dono
Incoraggiare le persone a fare un buon lavoro in linea con l’impostazione di questo scritto richiede ad evidenza che ogni collaboratore, ogni gruppo di lavoro, ogni unità organizzativa all’interno dell’azienda persegua congiuntamente più obiettivi fra loro interconnessi, riconducibili alla qualità della prestazione (che dovrebbe tendere all’eccellenza), alla qualità del clima o del contesto organizzativo, alla coerenza con la funzionalità duratura dell’azienda. Ciò richiede che i vertici aziendali si dotino, essi pure, di una funzione obiettivo di tipo olistico (Coda, 2006), basata su una pluralità di obiettivi interconnessi, e che la declinino in concreto a livello di uffici, gruppi di lavoro, servizi, funzioni e così via. Come si declina una funzione obiettivo di tipo olistico, ovvero orientata al conseguimento di una molteplicità di obiettivi, nei singoli gruppi di lavoro o unità organizzative? Di quali leve può disporre il management per incoraggiare i collaboratori a fare un buon lavoro, in piena sintonia con tale funzione obiettivo?
In primo luogo, esso è chiamato a dare il buon esempio.
In secondo luogo, il management deve strutturare e gestire sapientemente e coerentemente l’ampia gamma di sistemi operativi (o meccanismi organizzativi) di cui può disporre:
- i sistemi di selezione e di assunzione.
- i sistemi retributivi.
- i sistemi di incentivazione e di carriera.
- i processi e le iniziative di formazione.
- i sistemi informativi e di comunicazione.

Bibliografia
- Coda V., 2006, “Modelli mentali, condizioni di contesto e sviluppo delle aziende”