Il 20 e il 21 settembre saremo chiamati a esprimerci circa la conferma della riforma costituzionale che prevede il taglio del numero di parlamentari. La riforma, fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle, prevede il taglio del numero di deputati da 630 a 400 e di quello dei senatori da 315 a 200, per un totale di 600 parlamentari contro gli attuali 945.

Qualche giorno fa Luigi Di Maio ha etichettato coloro che voteranno il NO alla riforma come membri dell'establishment, accusandoli perciò di avere interessi affinché il taglio frani. Si tratta di una semplificazione tanto squallida quanto sbagliata, così come sono squallide e sbagliate quasi tutte le dichiarazioni rilasciate degli adepti di quel Movimento guidato da un'oscura srl.

C'è almeno una validissima ragione per bocciare la riforma costituzionale, quindi per votare NO al referendum. La vittoria del SI determinerebbe una variazione del numero di parlamentari, ma non cambierebbe i meccanismi di distribuzione dei seggi, si verrebbe perciò a creare una situazione confusa in cui i territori non verrebbero rappresentati né in modo uniforme né tantomeno proporzionato. Ecco un esempio: l'Abruzzo con un milione e trecentomila abitanti avrebbe diritto a 4 senatori mentre il Trentino Alto-Adige, che di abitanti ne ha trecentomila in meno, ne porterebbe 6 a Palazzo Madama. Si sballerebbero così i rapporti di forza tra le regioni in Parlamento e alcuni territori resterebbero privi di rappresentanza. 

Il problema che la riforma crea circa la rappresentanza è ben noto alle forze politiche, 5Stelle compresi. Dopo l'approvazione della riforma in Parlamento, l'8 ottobre 2019, Di Maio dichiarò: "Abbiamo stabilito un percorso per mettere a posto i regolamenti della Camera e del Senato, le leggi elettorali, per fare in modo che si attivino tutti i pesi e contrappesi che servono a questa riforma. Si apre un problema di rappresentanza? Di questo discuteremo da domani". Il problema c'è e fu sollevato in aula da quelle forze politiche che, dopo essersi battute contro la riforma, si accordarono proprio in virtù della promessa di seguire il percorso poi indicato da Di Maio. Allo stato attuale, quasi undici mesi dopo quel giorno, non solo il "percorso" auspicato da Di Maio non è stato seguito, ma neanche è stato discusso. La riforma voluta dai 5Stelle per risollevare i consensi in calo è passata e di tutto il resto non si sono interessati. 

Visti i problemi che crea la riforma su una materia tanto delicata, non si può ridurre il NO a una semplice scelta di convenienza. Bisogna anche considerare che il danno enorme che si verrebbe a creare con la vittoria del SI porterebbe a un risparmio economico ben lontano dai 500 milioni a legislatura promesso dai 5Stelle; nei suoi conti Di Maio, che in matematica non deve essere una cima, tiene conto anche delle detrazioni fiscali a carico dei parlamentari, ma al netto delle trattenute il risparmio sarebbe di soli 285 milioni e probabilmente, con un taglio degli stipendi e una maggiore attenzione ai furbetti dei rimborsi spese, si potrebbe ottenere di più senza intaccare la rappresentanza democratica. Volendo poi tornare sul piano delle valutazioni politiche, con questa riforma si afferma il principio che anche le fondamenta del processo democratico si possono intaccare in nome della spending review; si tratta di un messaggio molto pericoloso che potrebbe generare in futuro ulteriori riduzioni della partecipazione democratica in nome del risparmio.

I partiti che avevano appoggiato la riforma convinti dalle promesse di Di Maio, adesso che queste sono disattese, continuano a sostenere il SI o scelgono una posizione silenziosa, una sorta di non-schieramento. Lasciano che si consumi uno scempio pur di non prendere una posizione potenzialmente impopolare, oppure tacciono per salvare un'alleanza di governo e garantirsi qualche altra settimana di sopravvivenza. Il loro comportamento evidenzia, oltre a una grave mancanza di responsabilità, anche una patologica debolezza politica che li costringe a umiliarsi al cospetto di un movimento i cui consensi in due anni di governo si sono almeno dimezzati.

Il 20 e il 21 settembre i cittadini saranno chiamati a scegliere con responsabilità, dimenticando le chiacchiere da stadio e gli slogan. La Costituzione non è un gioco e non può essere cambiata solo per accaparrarsi qualche voto in più. Noi tutti elettori non dobbiamo mai dimenticare che è sbagliato cambiare qualcosa tanto per farlo, perché le cose possono sempre peggiorare: non sempre una cattiva riforma è meglio di nessuna riforma.