È un continuo riempirsi la bocca di parole, belle, volgari, interessanti, inutili… Parole, parole… aria espulsa per circostanza, dileggio, giudizio…
Eppure la potenza della parola è terribile, può elevare come distruggere, con facilità e leggerezza. L’arte oratoria era un pregio nell’antica Grecia, serviva per comunicare concetti profondi, per diffondere l’arte e la conoscenza, per istruire e consigliare, mentire o testimoniare la verità.
Sono ancor più pesanti ed incisive quando le parole vengono scritte, dipende dal ruolo di chi alla fine le sottoscrive. Possono salvare come distruggere. Anni di battaglie legali per avere un pezzo di carta firmato da uno e più giudici che incideranno sulla vita di un essere umano indelebilmente nel bene e nel male. Ormai il nome di Enzo Tortora non lo ricorda più nessuno, nessuno considera il messaggio scaturito dalla storia di quell’uomo mite, che amava i semplici, gli ultimi che è stato colpito vigliaccamente da un individuo squallido che lo ha trascinato nel fango, distrutto dalla superficialità di alcuni magistrati che poco avevano compreso del loro mandato. Il destino di un uomo per bene è stato travolto, la sua vita distrutta. Nessuno gli ha chiesto scusa, nessuno si è sentito in dovere di considerare l’errore e l’orrore che ne era derivato per quell’essere umano. Non basta solo firmare alla fine di una sentenza stilata con noncuranza, chiudere il fascicolo e passare ad un altro caso. Chi è investito di una funzione così delicata deve riflettere, fare attenzione alla persona, valutare con cura tutti gli aspetti del caso e considerare gli effetti che scaturiranno da una sua decisione errata: la Costituzione e le leggi servono per proteggere i deboli, i poveri perché i potenti si pongono di fatto al di sopra delle norme civili, penali e, ancor più, quelle morali.
Dopo decine di anni, un’altra tragedia investe e travolge tragicamente un’altra vita ma questa volta nel contenuto della requisitoria finale del Procuratore Generale di Roma a conclusione di una serie di processi per la morte di Stefano Cucchi troviamo finalmente una risposta, la troviamo nella denuncia lucida e tagliente alla mentalità inadeguata che una parte dei magistrati hanno maturato durante le loro esperienze professionali: trascuratezza, superficialità, scarso senso dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi la legge, talvolta opportunismo ed omertà se non addirittura comportamenti contrari all’etica o peggio collusivi. Sono esseri umani e come tali vanno considerati per cui è necessario avere molta cura nel selezionare i candidati. Vi sono persone inadatte alla funzione che sono chiamate a svolgere, vincere un concorso non è sufficiente, una preparazione tecnica non basta, bisogna possedere una innata affinità con la verità e la giustizia, un notevole spirito di servizio, un profondo senso dello Stato e di responsabilità.
Un pezzo di carta di un tribunale può cambiare la vita ad un essere umano nel bene e nel male, soddisfare un’istanza di giustizia o negarla dipende dalle doti naturali e professionali di coloro che devono decidere: alla fine è primariamente l’elemento umano insieme alla competenza e all’esperienza che determinano il risultato.
“Quanta violenza siamo disposti a nascondere ai nostri occhi da parte dello Stato senza farci problemi di coscienza? Noi dobbiamo essere diversi”.
Il Procuratore Generale si riferiva chiaramente alla violenza volutamente tollerata e ancor peggio ignorata consumata su cittadini inermi, il fatto che Stefano Cucchi aveva dei precedenti per droga giustificava ancor meglio tale omertosa miopia.
Ma tali considerazioni riferite inequivocabilmente alla ben nota consuetudine di usare il pestaggio come metodo di interrogatorio fanno contemporaneamente emergere il rapporto sinergico tra le forze dell’ordine e il potere giudiziario basato su stretti rapporti di fiducia acriticamente accordata agli operatori incaricati delle indagini sul territorio. A questi ultimi tale rapporto permette impunemente anche di mentire, manipolare fatti e circostanze, violare il segreto d’ufficio, favoreggiare “amici” e personaggi corrotti, l’imprenditoria criminale e la criminalità organizzata ed istituzionale.
Dissento dall’uso che il Procuratore Generale fa della parola “Stato”: lo Stato è un popolo che vive su di un territorio governato da un sistema di leggi: quella tipologia di individui non rappresenta lo Stato, quei soggetti sono delle anomalie che vanno isolate ed espulse dalla collettività perché hanno tradito lo Stato, lo hanno usato, offeso e sfruttato. Hanno abusato del potere che lo Stato gli ha delegato, hanno tradito la pubblica fede, si sentono intoccabili perché la parola di un cittadino onesto non vale quanto la loro quando mentono. Possono strumentalmente rovinare la reputazione di una persona onesta per fare favori a quelli che contano e dai quali possono ricavare un vantaggio personale. Questo è l’aspetto che coglie “l’ordinaria follia” che ha investito le forze dell’ordine in particolar modo i carabinieri che hanno dimostrato e continuano a dimostrare un atteggiamento poco consono ai loro doveri d’ufficio e senso dello Stato – quello vero – mi riferisco a quella parte che disonora i principi costituzionali e morali che dovrebbe difendere.
Attualmente si sta concludendo con le requisitorie dei P.G. il processo presso la Corte d’Assise d’appello denominato “Patto tra Stato e mafia” lo Stato in questo caso andrebbe scritto minuscolo perché quella parola nel caso specifico non rappresenta i cittadini, soprattutto quelli onesti, che vivono in questo sciagurato Paese.
Nell’aula di giustizia risuonano parole dure, parole che tentano, senza riuscirci del tutto, di tracciare un profilo chiaro del volto del potere che sfugge alle regole e che ha determinato con le sue scelte un destino diverso dalle legittime aspirazioni dei cittadini.
Gli imputati sono solo dei frammenti simbolici degli ormai noti settori deviati dello Stato, non si può credere che solo pochi individui possono gestire una tale operazione. Il reato che viene contestato agli imputati è ‘minaccia al Corpo politico dello Stato’. Ma lo Stato è un’entità unitaria, non esistono pezzi (o settori) deviati, quei termini sono inappropriati, oserei dire ipocritamente riduttivi riferiti ad una realtà così scandalosamente pericolosa per la sopravvivenza e l’affermazione concreta dei valori che dovrebbero sorreggere una vera repubblica democratica.
Forse la definizione che ne dà Rousseau è la più appropriata.
“Il corpo politico, come il corpo dell'uomo, comincia a morire dal momento della nascita e porta in sé stesso le cause della sua distruzione. Ma l'uno e l'altro possono avere una costituzione più o meno robusta e atta a conservarli più o meno lungamente. La costituzione dell'uomo è opera della natura; quella dello stato è opera dell'arte. Non dipende dagli uomini il prolungare la loro vita, dipende da loro il prolungare quanto più possibile quella dello stato, dando a questo la miglior costituzione che esso possa avere. Quello meglio ordinato finirà, ma più tardi di un altro, se nessun incidente imprevisto non lo porta alla rovina anzi tempo.Il principio della vita politica è nella autorità sovrana. Il potere legislativo è il cuore dello stato: il potere esecutivo ne è il cervello, che dà il movimento a tutte le parti. Il cervello può cadere in paralisi e l'individuo tuttavia vivere ancora. Un uomo resta imbecille, ma vivo. ma non appena il cuore ha cessato di funzionare l'animale è morto. Non è grazie alle leggi che lo stato sussiste ma è grazie al potere legislativo. La legge di ieri non obbliga oggi; ma il consenso tacito è presunto dal silenzio e si ritiene che il corpo sovrano continuamente confermi le leggi che non abroga, pur potendolo fare. Tutto quello che esso ha dichiarato di volere una volta, lo vuole sempre, a meno che non lo revochi”.
Uno Stato sano deve avere un’autorità sovrana con un forte spirito di servizio e senso dello Stato e un Parlamento che faccia delle buone leggi.
Nel processo di primo grado sono stati condannati a 12 anni di reclusione per minaccia a Corpo politico dello Stato gli ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori e l'ex capo del Ros Antonio Subranni, l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri, quest’ultimo è condannato in via definitiva a 7 anni di reclusione per favoreggiamento alla mafia. L’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno a 8 anni per essersi dimenticato di sorvegliare e perquisire il covo di Riina lasciando ai mafiosi il tempo per far sparire i documenti sensibili e ristrutturare l’interno dell’immobile. Il boss Bagarella è stato condannato a 26 anni, Antonino Cinà a 12 anni, Il pentito Brusca si è salvato grazie alla prescrizione mente Massimo Ciancimino è stato condannato a 8 anni per calunnia reato nel frattempo caduto in prescrizione.
Per la prima volta Dell’Utri interviene in udienza, nelle motivazioni della sentenza di condanna in primo grado di lui i giudici avevano scritto: "Con l'apertura alle esigenze dell'associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell'Utri nella sua funzione di intermediario dell'imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992".
I Procuratori Fici e Barbiera nelle loro requisitorie finali dinanzi la Corte d’Assise d’appello sottolineano con forza e chiarezza gli aspetti inquietanti dell’intera vicenda, testualmente: "C'è qualcuno in quest'aula che dopo avere letto e sentito le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, gli atti su via D'Amelio, dubiti dell'esistenza di soggetti che hanno agito nell'ombra? Nessuno, riteniamo noi, dubita dell'esistenza di menti raffinatissime, di 'pupari' che hanno agito nell'ombra con evidenti gravi condotte che appaiono non comprensibili e certamente non giustificabili". Aggiungono: “(….) ciò che è emerso nel corso del lungo dibattimento possiamo ricavare una certezza: che negli anni in cui si sono verificati i fatti nella risposta al crimine organizzato da parte degli organi preposti qualcosa non ha funzionato per come avrebbe dovuto funzionare. Ci si riferisce, è bene essere espliciti, a comportamenti opachi e anche delittuosi, è bene dirlo, da parte di appartenenti allo Stato di soggetti alcuni dei quali sono rimasti nell’ombra”. Esplicitano: “ (…..) hanno agito al di fuori degli schemi ritardando e distruggendo le prove, falsificando le prove, favorendo e depistando. Sono decine gli inviti a tentare di fare chiarezza, basta ricordare l’intervista fatta ieri dal vicequestore aggiunto Manfredi Borsellino, figlio del giudice Paolo Borsellino”. “(….) in un processo penale sono importanti i fatti provati e non le suggestioni e, tuttavia, è molto difficile restare del tutto insensibili a ciò che in questa terra si sa da decenni. Tutti lo sanno, vox populi vox dei, espressione medievale che non si addice ai crismi del giusto processo, posto che le opinioni e i giudizi del popolo non possono essere ritenuti, in quanto tali, giusti e veri. E, tuttavia, come non tornare a quello che gridava con toni disperati una moltitudine di cittadini ai funerali di Falcone, Borsellino? Come non ricordare la rabbia esasperata dei colleghi degli agenti di scorta uccisi nelle stragi di Capaci e in via d’Amelio? Avevano intuito qualcosa evidentemente e avevano persino aggredito il Capo della polizia Parisi, rischiando che la rabbia travolgesse anche l’allora Capo dello Stato Scalfaro. Noi non ripeteremo oggi frasi come ‘Fuori la mafia dallo Stato’ ma possiamo dire che vicende di questo processo ci hanno fatto capire che furono fatte alcune scelte di politica criminale e alcune attività, ovvero incomprensibili omissioni, sono state guidate da logiche rimaste estranee al corretto circuito istituzionale”.
È sufficiente ricordare che l’ex Capo dello Stato Ciampi pensava a un colpo di Stato, oppure l’ex Capo della Polizia Parisi fece uso di una segnalazione del Sisde sicuramente falsa”. “Chi ha agito violando le regole lo ha fatto per la salvezza di un determinato assetto di potere. Anche a costo di calunniare degli innocenti, distruggendo famiglie e seminando dolore e lo ha fatto al di fuori delle dinamiche democratiche. Noi invece vogliamo capire. Lo dobbiamo a tutti i familiari delle vittime”. Pretendere di capire tali dinamiche comportamentali è impossibile se non si considera la degenerazione genetica dell'interiorità di questi individui avvenuta per la costante e cosciente convivenza con la "banalità del male".
Coloro che sono rimasti nell’ombra continuano ad agire in piena luce tramite interposte persone. Gli imputati sono il riflesso visibile della criminalità istituzionale che ha avvelenato l’apparato dello Stato e ci impone le sue cattive leggi.
"Qui siamo di fronte a un sistema per cui bisogna credere per atto di fede. Se ci venisse spiegato il perché del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana o della restituzione dei cellulari al boss Giovanni Napoli (riferendosi al sequestro dei cellulari e dei pc), saremmo in grado di valutare e magari avviare una riconciliazione con chi invece chiede ancora oggi giustizia e verità. Invece si preferisce tacere o dichiarare il falso piuttosto che raccontare la verità".
La vera fede si appoggia alla conoscenza, la vera conoscenza è radicata nella verità, la verità ci apre la via alla libertà.