È almeno dal tardo Impero Romano, ossia l’espressione sociopolitica antica più vicina alle nostre società, che è iniziato il processo di separazione tra lo Stato e la chiesa il cui legame, fino ad epoche recenti, caratterizzava la nota, quanto discutibile, unione tra «trono e altare» su cui tanto sangue ed inchiostro sono stati versati. Com’è noto, questa lotta per la separazione dei poteri prende il nome di «secolarizzazione» un termine che, non a caso, entra nel linguaggio europeo dalla fine della guerra dei Trent’anni la quale, segnando la cessazione delle guerre di religione in Europa, rappresenta, con la ratifica della pace di Vestfalia (1648), anche la data del sorgere dello Stato moderno e del concetto di sovranità nazionale. 

Lo Stato come ente indipendente sorge, dunque, dalla separazione dall’influenza di un potere esterno che era, in quei secoli, quello della chiesa, mentre nella nostra epoca è quello di enormi concentrazioni finanziarie. L’Europa del 1648 diviene allora, politicamente e culturalmente, un continente molto diverso rispetto all’Europa del 1618. 

È dagli accordi di Vestfalia che tredici secoli di commistione tra potere temporale e religioso giungono alla loro separazione e, da quel momento, seppur con vicende alterne, vi saranno lo Stato da una parte e la chiesa dall’altra. Ci vollero, dunque, almeno tredici secoli per giungere alla comprensione della necessità di una separazione tra poteri la quale non soltanto favoriva, in maniera eccessiva, la parte del papato, ma aveva generato le catastrofi ed i massacri religioso-politici della storia precedente. Questa separazione portò ad una sempre maggiore autonomia degli Stati ed alla lenta crescita delle società liberali e della cultura laica. 

La storia, però, ha una perniciosa tendenza alla ripetizione e certi modelli socio-politici, se non analizzati e compresi seriamente, lasciano aperta la strada ad imitazioni di quelle stesse strutture in precedenza abbandonate. Non è un caso che la Russia sia passata dallo Zar bianco Nicola II allo Zar rosso Joseph Vissarionovich, oppure che la Germania sia passata da un Kaiser ad un Führer ed i riti e simboli del potere mantengano una loro costante rappresentazione nel corso dei secoli: dal vessillo dei Cesari fino ai drappi ed alle bandiere di combattimento moderne. La ripetizione di modelli noti è, purtroppo, una costante nella storia. 

Che ne è dunque stato della commistione tra potere temporale e religioso dopo il 1648? È semplicemente scomparsa ed è uscita dalla storia con la mera firma di un trattato? Scorrendo rapidamente i secoli senza soffermarsi ed arrivando al dopoguerra, possiamo far tornare alla mente l’ormai celebre discorso di commiato del Presidente Eisenhower quando, nel 1961, ammoniva contro «the acquisition of unwarranted influence, whether sought or unsought, by the military-industrial complex, l’acquisizione di un'influenza ingiustificata, richiesta o meno, da parte del complesso militar-industriale» denunciando così, pesantemente e dall’alto della sua carica, l’ennesimo tentativo di sintesi tra lo Stato ed altri poteri questa volta, però, tra il potere pubblico ed un non ben definito potere economico-militare. Il neoliberismo, l’ideologia dominante dell’epoca contemporanea, farà invece di questa sintesi tra pubblico e privato uno degli elementi centrali della propria dottrina, tanto quanto la chiesa faceva della sintesi tra potere temporale e potere spirituale uno degli elementi cardine della società del suo tempo. Dal military-industrial complex alla privatizzazione dello Stato il passo è tanto breve quanto lo è nel passaggio dal Kaiser al Führer.

Dal discorso di Eisenhower ad oggi sono trascorsi sessant’anni e la sintesi tra Stato e privato è diventata quasi un luogo comune propagato dai banchi di scuola alle aule accademiche, televisive e persino sugli scranni dei Parlamenti. In Messico, tra il 1983 ed il 1991, è avvenuta una colossale privatizzazione dello Stato la quale, secondo le stesse parole del Working Paper #513 dell’Inter-American Development Bank ha «ridefinito il ruolo dello Stato nella sua economia attraverso un programma ambizioso per liberalizzare il commercio, promuovere l’efficienza e ridurre le dimensioni e la portata del settore statale». A questo enorme progetto di destrutturazione dello Stato ne sono seguiti altri, passando dall’America Centrale fino all’Europa dove, iniziando da un lugubre discorso di Mario Draghi – all’epoca direttore generale del Tesoro – tenuto, a bordo dello Yacht Britannia il 2 giugno 1992, appena undici giorni dopo uno dei più spaventosi e criminali attentati mafiosi della storia d’Italia in cui, facendo esplodere un tratto di autostrada, venne assassinato il giudice Giovanni Falcone, con la moglie e la scorta, il banchiere dichiarava, senza troppi patemi, «un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico (il corsivo è mio), riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile». 

Il governo tedesco, appena due anni dopo questo truce discorso, seguirà le stesse pseudoargomentazioni avviando la colossale privatizzazione della Bundesbahn insieme a molte altre, non ultima quella della Deutsche Post nel 1999. Mario Draghi, invece, a 19 anni dal processo di privatizzazioni dello Stato italiano da lui avviato, verrà ricompensato, il 1 novembre 2011, con l’elezione a Presidente della BCE. In questo momento storico lo stesso banchiere del Britannia è stato chiamato, da non eletto, ad occupare il posto di Presidente del Consiglio e, se verrà, come dicono certe voci, anche eletto Presidente della Repubblica italiana, il processo di esternalizzazione dello Stato potrà dirsi a quel punto formalmente completo. 

Dónal Palcic ed Eoin Reeves, in un testo del 2011 sulla Privatisation in Europe, hanno scritto: «La fornitura pubblica di servizi pubblici essenziali come i trasporti, l’acqua e l’elettricità è stata la norma in tutta Europa per gran parte del ventesimo secolo. Gli ultimi 30 anni circa, tuttavia, sono stati testimoni di una rottura radicale con questa tradizione, in quanto una serie di fattori economici e politici hanno portato ad una riconsiderazione del ruolo preciso dello Stato nella fornitura di servizi pubblici». 

Come si nota, anche dai discorsi che vengono fatti dagli esecutori e dagli ideologhi, quello di cui si parla è sempre un riposizionamento del ruolo dello Stato in chiave privata e dell’esternalizzazione di beni e servizi primari e fondamentali. Una tra le preoccupanti conseguenze di questo processo di fusione – e confusione – dello Stato nel privato e del privato nello Stato è anche l’interscambiabilità di tecnocrati dalle strutture dello Stato a quelle private e da quelle private a quelle dello Stato. Per questo molti tra questi soggetti possono passare dal pubblico al privato e dal privato al pubblico, anche elettivo, senza difficoltà alcuna.

Quando lo Stato, da somma della volontà collettiva democraticamente organizzata e giuridicamente ordinata, viene invece interpretato come un ente strutturalmente incapace di gestione efficiente, questo viene ridotto sofisticamente ad una mera parodia di se stesso. Lo scopo è evidente: dipingendo il settore pubblico come inetto ed incapace si giustifica il desiderio – se non l’imprescindibile necessità – della gestione privata. Ci sono già quelli che, oltre ai servizi pubblici, ferrovie, ospedali, università e prigioni, teorizzano persino l’esternalizzazione palese del processo legislativo! Del resto, se lo Stato è così inefficiente – così argomentano ancora una volta costoro – perché affidargli la competenza di promulgare le leggi?

Queste apologie dell’intervento privato, curiosamente provenienti in genere proprio dal settore privato, evitano tutte, con grande attenzione, di far notare che lo Stato non è un’azienda e non può essere considerato come tale, dunque la sua efficienza non dovrebbe essere quantificata dall’abilità di rendere finanziariamente competitivi dei servizi, ma dalla capacità di offrire a tutti i cittadini eguali possibilità nell’educazione, nel lavoro, nei trasporti, etc., perché così facendo garantisce la libertà del cittadino, rispettandone, al tempo stesso, dignità e diritti. La privatizzazione delle ferrovie o dei servizi postali sono esempi paradigmatici: è evidente che riducendo le tratte ferroviarie meno redditizie si aumentano gli utili, ma non si raggiungono più dei paesini i cui abitanti, in nome del profitto, vedono un’immediata riduzione delle loro possibilità di movimento. Lo Stato ha il compito di garantire libertà, benessere e servizi senza considerazioni di ordine economico, altrimenti da Stato sociale si trasforma in uno Stato S.p.A. Un governo che da una parte privatizza e dall’altra taglia le pensioni, riduce gli ospedali o eleva la soglia di pensionamento sta agendo come un’azienda (e neppure una delle migliori), non come uno Stato. 

Il passaggio, poi, dallo Stato di diritto ad un sistema che utilizza il potere esecutivo per formulare leggi anticostituzionali ed imporre ai cittadini un bavaglio, un farmaco sperimentale o uno stato di discriminazione tra cittadini di serie A e cittadini di serie B, è solo l’ennesimo passo sulla strada della corporativizzazione dello Stato. Quelli che ancora ricordano qualcosa della storia del Novecento non faranno poi fatica a ricordare qual era lo Stato corporativo in quel secolo (vedi: B. Mussolini, Lo Stato Corporativo, 1933). Oggi, nel 2021, abbiamo più che mai un disperato bisogno di una nuova secolarizzazione dello Stato!