Foto di copertina, borgo di Elcito In provincia di Macerata (foto di Paolo Conte libera per qualsiasi utilizzo).
Ho scritto questo articolo quel marzo 2020, precisamente la festa della donna dell'8 marzo 2020 e la pandemia virale più grave degli ultimi 100 anni. Era anche il giorno di un richiamo, inedito, a rientrare nelle proprie regioni di residenza, nel caso ci si fosse trovati fuori, per quello che sarebbe stato ricordato come il primo grande lock-down (o meglio quarantena) pandemico dell'età moderna.
Certo, alla luce dei fatti sanguinosi che stanno accadendo in Ucraina e quindi in Europa, con il conseguente rischio per la pace per un quarto del mondo o forse per tutto il mondo, non nascondo che pubblico con un certo imbarazzo un articolo che ora, alla luce del poi, mi sembra carico di un'eccessiva drammatizzazione e forse persino ridicolo (ma i morti ci furono e tanti quanti una media cittadina italiana). Ma si sa, nei meccanismi della psicologia umana, il male peggiore (la guerra) scaccia quello minore (la peste). Comunque quello era, in quel momento, quello che sentivo, come credo molti di voi. Questa è la vita.
Mi trovavo in Versilia per lavoro e sono dovuto partire di corsa per tornare in Lombardia. Questo il mio resoconto.
Domenica 8 marzo 2020. Una data che ricorderò e aggiungerò alla liste delle mie piccole cronache. Nel mondo c’è l’emergenza di un nuovo coronavirus. E’ stato denominato CoVID-19, che sembra il nome di un qualche nuovo tipo di missile balistico ma è in realtà un acronimo inglese di Corona Virus Desease 2019. L’Italia e in particolare la Lombardia, è stata la regione del mondo più colpita dopo Cina e Corea e il contagio sembra al momento diffondersi in maniera esponenziale in tutto il paese e all’estero. Mi trovavo in Toscana da tre giorni, per dei lavori in Versilia a Marina di Pietrasanta.
Sabato 7 marzo la prima fuga di notizie circa la messa in “quarantena” dell’intero territorio lombardo. Il decreto, ancora in forma di bozza, viene diffuso in tarda serata dalle testate principali. I morti e i positivi aumentano. Primi casi di panico con gente che lascia precipitosamente la Lombardia verso i luoghi di origine o peggio (come aiutare il coronavirus nella sua avanzata) per una vacanza forzata in qualche luogo di mare o montagna. E poi il solito assalto ai poveri supermercati. Quella mattina della domenica, mi alzo di buona lena per raccogliere le ultime notizie. Confermato il blocco della mia regione, decido di mettere via per e partire il prima possibile.
I giorni prima avevo vissuto in Toscana in uno strano stato di sospensione. Ero arrivato con il maltempo. Appena scaricate le valigie, decisi di recarmi in spiaggia. Ero attratto dal mare in tormento.
Mare a Marina di Pietrasanta il 5 marzo 2020 (foto Paolo Conte)
Lo spettacolo che mi si offriva davanti non faceva altro che aumentare la sensazione di cattivo presagio. Guardavo una spiaggia con il cielo minaccioso, la sabbia color cenere vulcanica, il mare di carta stagnola, e pensai le cose più inquietanti. Dal punto in cui mi trovavo, potevo vedere quanti calpestii si erano incrociati nei giorni precedenti. Ora sembravano quasi la tetra e labile testimonianza di una civiltà scomparsa. Effetto coronavirus? di sicuro. La realtà è che si trattava di una giornata piovosa in un giorno feriale , in una regione che non aveva ancora subito alcun blocco (attuato puntualmente per tutto il paese il martedì 10 marzo seguente) e con pochi casi positivi. Pensai subito riguardo a questa strana inquietudine, che le pesti dei secoli precedenti, assieme ad una duplicazione del loro DNA attraverso le nostre cellule, devono aver lasciato una sorta di memoria atavica di questi eventi, che trasuda nei momenti di crisi in un’ ansia inspiegabile.
Stessa spiaggia il 7 marzo 2020 (foto Paolo Conte)
Due giorni dopo, sabato 7 marzo infatti, c’era un cielo terso, le nuvole cesellate con dettaglio nel cielo e un mare di oro e antracite. La sabbia si era trasformata in un piatto specchio delle migliori brame. Lungo la battigia, gruppi di persone parlavano quiete e silenziose, una ragazza era persino in trasparenti da spiaggia, due ragazzini facevano volare un palloncino e qua e là passeggiatori solitari con i loro cani si incrociavano con patiti del jogging. Bastava che il pittore (la realtà) avesse virato i colori e il numero di presenze sulla tela, per fare provare una sensazione di rassicurante tranquillità. Ora quelle orme erano solo la manifestazione di vita e movimento.
Fotografie di Paolo Conte
Quella domenica, mi misi quindi in strada per Milano passando per la Cisa. Sapevo che era mio dovere e necessità tornare a Milano. Non nascondo che lasciai la Versilia con un velo di malinconia. Avevo ancora in mente quel tramonto di oro e argento e il suono delle onde farcito di flebili vocine. Con quel tepore che si incuneava nell’aria ancora frizzante dell’inizio di marzo. E poi, alle spalle, apparivano altere le Alpi Apuane, con cappucci di neve e marmo. Sembravano l’alter ego pietrificato delle onde del mare. Quante volte avevo confuso le cave bianche di marmo che scoprivano le gengive delle vette con la neve. Questa volte c’erano entrambe, le cave di marmo e la neve. Sono nette e frastagliate queste vette, per questo, caso unico in tutta l’Italia centrale, si chiamano Alpi. Insomma scoprivo, forse per la prima volta e con lo sguardo di chi ha la sensazione di vedere un posto per l’ultima volta, quanto tutto fosse ricolmo di bellezza. Mi sentivo avvolto ancora da una specie di protezione arcana, simile a quella di un grembo materno, e avrei voluto rimanervici per sempre. Poi quella, era la terra dove solo 3 anni prima avevo girato le immagini per un mio documentario sul poeta Shelley, vissuto e poi morto proprio in quei luoghi. Anzi il suo corpo venne ritrovato nel 1822 a 3 chilometri più in giù su questa stessa costa. Forse per questo il legame con questo posto è andato crescendo nel tempo. Pensavo alla casetta acquistata dai miei con tanti sacrifici. Piena di quadri di navi, barche e conchiglie, e la stanzetta con il mobilio in stile marinaro, in ricordo del nonno materno Capitano della marina mercantile.
Dopo pochi chilometri, le Alpi Apuane si divaricavano sulla destra come in segno di deferenza nei confronti dei più austeri contrafforti dell’Appennino. Anche questo tratto di strada completamente vuoto dal traffico, ero deciso a guardarlo con occhi diversi. Anzi, non era nemmeno una questione di scelta, c’era una specie di compito dell’emozione che mi faceva divorare con gli occhi il paesaggio. Quando si imbocca la strada che sovrasta la Valle del Magra, in direzione di Parma, appaiono, come miraggi, antichi borghi raggomitolati, come Caprigliola, che sembra un' Arca di Noè , depositata sui fianchi di una montagna, dopo un diluvio universale.
Il borgo antico di Caprigliola in una foto di Davide Papalini (fonte Wikipedia)
Lungo l’Appennino tosco-emiliano, come nel resto d’Italia, è tutto un susseguirsi di borghi, corni e rupi smussate di antiche montagne, e squadriglie di vette che imbruniscono all’orizzonte. Anche qui la neve enfatizza le vette degli Appennini, spesso rese discrete e irrilevanti nei periodi estivi. Rispetto al paesaggio lucente e mediterraneo delle Alpi Apuane, qui capisci di trovarti in zona continentale. Le foreste sono scure e dense, le valli sono conche dalla forma incava un può claustrofobica. Sono disseminate di pascoli, paesi, antri e rocce sdentate. Era la prima volta che viaggiando, mi soffermavo su ogni dettaglio di questa complessa morfologia, sulla sua geologia che ti proietta in un attimo, con la fantasia, in ere geologiche antichissime. Mi ero quasi commosso nel pensare a quale prodigiosa connubio si fosse compiuto in questo paese tra la terra e l’uomo.
Crinale del Monte Giovo, pubblico dominio Wikipèdia
Mentre guidavo in ammirazione, pensai: Ma perché tutti questi borghi abbandonati e circondati da terre tornate vergini, non vengono ricolonizzati dalle genti annoiate e alienate delle nostre periferie. Un esodo e un isolamento che, per questi diseredati urbani, avrebbe più il sapore di un eden ritrovato che di una prigione. Si potrebbero ripopolare senza sovraffollarli i tanti borghi medievali semi abbandonati. Gli anziani rimasti, levate le diffidenze iniziali anche di paura per il contagio, naturali per genti abituate alla solitudine e tranquillità (di cui in un certo senso sono divenute gelose), potrebbero contare su nuove braccia. Per ristrutturare, ricoprire, aggiustare, dissodare, ripulire, arare, raccogliere. Comparirebbero i bambini. I giovani senza futuro e cinquantenni disoccupati da decenni, tornerebbero a coltivare le terre, costruire pulpiti, tavoli, mobili, a pitturare, aggiustare ferri e arnesi. Non servirebbero i libri, basterebbe ascoltare gli anziani del luogo e guardare le opere dei nostri antichi pittori come il Giotto, il Gentile da Fabriano, Il Michelangelo o il Botticelli, per capire come rimodellare i territori e i mestieri.
Basta guardarli, questi meravigliosi borghi italici, per comprendere di come siano stati concepiti per stringersi in comunità ma anche per tenere qualsiasi nemico fuori le mura o per spegnerlo all’interno. Virus compresi. Sì! Assedi e quarantene hanno plasmato le nostre genti. Già! La quarantena. Molti ne parlano come fosse la scoperta DEL secolo, mentre è stata la pratica DEI secoli. Stiamo applicando, pensavo tenendo il volante fisso sulle 10.15, un metodo vecchio come il mondo, fatto passare per un’esigenza di quello nuovo. Sono i soliti teorici del complotto e cospirazionisti, che tra scienza e fede sembrano essere i veri vincitori, SEMPRE.
Forse questi poveri anziani in questo momento, là in quei borghi isolati, sono più al sicuro. Nelle città invece il coronavirus se li sta prendendo a centinaia. Ma in quella società utopica, di cui fantasticavo guidando, avremmo potuto sperare in un nuovo patto sociale tra le generazioni. “Noi vi diamo la conoscenza, la pazienza e la saggezza” direbbero questi anziani a noi, “Noi la forza e la volontà” potremmo dire loro. Sì, la terra è un paradiso per gli esuli giusti anche se pazzi ma il Coronavirus non volerà sul nido del cuculo!
Tra Berceto e Fornovo di Taro poi, apparivano come dal set di un Jurassic Park, le imponenti formazioni geologiche sedimentarie, riemerse dagli abissi come giganteschi palazzi degli dei crollati su un lato.
Questo Coronavirus, aveva cambiato qualcosa nel modo in cui percepivo ogni segno di questo paese. Scendendo verso Parma, sulle lunghe rampe paraboliche che conducono alla pianura padana, mi accorsi che persino le manifestazioni urbanistiche della operosa industria del nord, che un tempo criticavo come nemiche della natura e del paesaggio, mi apparivano ora come un miracolo della volontà e dell’ingegno italico, miraggio onirico di una capacità irripetibile di piccole e medie imprese disseminate sul tappeto padano come uno stuolo di fieri soldatini e stendardi.
Tornando a casa da mia moglie, capii che forse, quello che veniva messo in pericolo, anche solo per una finestra di tempo, andava ben al di là di facili equazione ed era il frutto virtuoso di milioni di anni di evoluzione terrestre e centinaia di tenace antropologia umana. Piansi e tornai nella Lombardia ormai tutta in quarantena, con questa consapevolezza, non so se truccata dall’emergenza o sincera, ma era lì, pesante e certa. Ora mi attendeva una quarantena di settimane e forse più. E mi terranno compagnia le immagini di quel viaggio fatto più volte, ma fatto veramente una sola volta quel giorno. Intanto la radio già preannunciava la quarantena totale.