Lo scorso 27 gennaio Donald Trump aveva firmato un decreto che impediva, per i successivi 90 giorni, ai cittadini provenienti da Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen l'ingresso negli Stati Uniti. Nello stesso documento lo stesso divieto, stavolta per 120 giorni, era esteso anche a tutti i profughi, ad eccezione di quelli siriani che, invece, venivano esclusi a tempo indeterminato.

Una settimana fa, un giudice della Corte federale di Seattle, James Robart, ha emesso una sentenza con cui sospendeva l'ordine esecutivo di Trump.

Successivamente, il Dipartimento di Giustizia si è opposto al "divieto del divieto" ed il caso è finito alla Corte di Appello federale di San Francisco che è stata incaricata di esprimere il proprio giudizio in merito.

La Corte era costituita da una giuria di tre giudici, di cui due nominati da presidenti democratici, Jimmy Carter e Barack Obama, e uno nominato dall'ex presidente repubblicano George W. Bush.

La decisione della giuria, dopo aver sentito le opinioni delle parti in causa - i legali degli stati del Minnesota e di Washington contro quelli del Dipartimento di Giustizia -, è arrivata giovedì con una sentenza all'unanimità che ha confermato la  sospensione del divieto imposto da Trump già deciso dal giudice Robart.

La motivazione della sentenza è assolutamente chiara e lineare. Durante l'audizione dello scorso martedì, il governo americano non ha fornito "alcuna prova" che l'ingresso negli USA dei cittadini oggetto del divieto costituisca motivo di preoccupazione per gli interessi di sicurezza nazionale del paese.

I giudici hanno anche aggiunto che il governo non ha prodotto alcuna evidenza che una qualsiasi persona proveniente dai paesi oggetto del divieto stesse preparando un attacco terroristico negli Stati Uniti.

Adesso, per Trump si aprono due possibilità. La prima è che chieda una revisione della decisione alla stessa Corte di Appello di San Francisco, ma stavolta riunita al completo, "en banc". L'altra possibilità è quella di rivolgersi alla Corte Suprema, ammesso che ne abbia il tempo, considerando che il divieto per la maggior parte dei punti trattati ha una scadenza temporale di pochi mesi.

La replica di Trump alla decisione avversa espressa dai giudici di San Francisco è arrivata, al solito, via Twitter, confermando la sua volontà di voler andare avanti nella battaglia giudiziaria.

Al di là dei contenuti, la vicenda sta mettendo in luce uno scontro tra il potere giudiziario e quello esecutivo che potrebbe caratterizzare l'intero mandato Trump, poiché il neo presidente non sembra assolutamente rendersi conto, come le persone che lo dovrebbero consigliare, che una democrazia, perché possa funzionare, ha bisogno di un bilanciamento dei poteri tra istituzioni che operino tra loro in sintonia, ma autonomamente, nel pieno rispetto dei proprio ruoli.