Una persona può fare del male senza essere malvagia? Era questa la complessa domanda che assillava la filosofa Hannah Arendt mentre, nel 1961, seguiva per il New Yorker il processo per crimini di guerra ad Adolf Eichmann, il funzionario nazista responsabile di aver organizzato il trasporto di milioni di ebrei – e non solo – nei campi di concentramento per la Soluzione Finale.
Arendt pensava che Eichmann fosse un burocrate ordinario, se non addirittura noioso. Uno che, stando alle sue parole, non era “né perverso,né sadico”, ma “spaventosamente normale”.
HANAU, Germania: Tobias Rathien, 43 anni. Un uomo come tanti che non si è mai fatto notare in passato per atteggiamenti razzisti o estremisti,apre il fuoco all'impazzata in due noti shisha-bar, ritrovo di 'altre razze', causando nove morti e quattro feriti.Poi il killer ritornando nel suo appartamento come se nulla fosse accaduto uccide ancora, prima la madre e poi se stesso.
Ritorna “la banalità del male”.
Anche qui un uomo superficiale e inetto, un “joiner”, uno che “va dove tira il vento”.
Un uomo che si è fatto trascinare dal movente razzista in cerca di uno scopo o di una direzione e forse senza una convinzione ideologica radicata.
Thobias Rathien ricorda il protagonista de "Lo straniero" (1942) di Albert Camus, che uccide un uomo per caso ma poi non prova alcun rimorso.
Non c’è un’intenzione particolare nel suo gesto o un’ovvia motivazione malvagia; “è successo e basta”.
Si può restare colpiti dalla evidente superficialità del colpevole, superficialità che rende impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause o di motivazioni. La strage di Hanau è senza dubbio cosa aberrante e mostruosa, ma l’attore risulta quanto mai ordinario, mediocre paradossalmente tutt’altro che demoniaco o mostruoso.
Ma non è questa stessa assenza della capacità di pensare, della consapevolezza e della coscienza a renderlo semplicemente un mostro?
Difficile rispondere. Se la malvagità è banale, cioè si sottrae al pensiero, la filosofa Arend ne teorizzò il suo vero orrore.
La persona razzista può essere intesa come “colui che pensa che tutto ciò che è troppo differente da lui lo minacci nella sua tranquillità: ha paura dello straniero senza una ragione valida” come sostiene Tahar Ben Jelloun.
Ma se si ha il coraggio di guardare negli occhi l'altro, il diverso ci si accorge di guardare in realtà se stessi.
E dunque ciascun volto è il simbolo della vita.
E tutta la vita merita rispetto.
Rimane però il fatto che gli atteggiamenti umani non mutano tanto rapidamente e che una visione del mondo è più facile conservarla anziché gettarla nel mucchio dei rifiuti della storia.
Lo stereotipo ha continuato a informare la mentalità di molti: è accaduto di nuovo proprio in Germania le cui leggendarie radici ‛storiche' hanno continuato a formare una parte vitale del nazionalismo moderno.
Accade ancora che gli uomini guardino con ansia e timore alle differenze esistenti al di fuori della propria comunità e cerchino rifugio dalla crisi del modernismo nella sicurezza del simbolismo e della superiorità razziali.
Chi può escludere che, ove tali valori (per es. la moralità o la nazionalità) siano in pericolo, il razzismo si erga ancora una volta a loro protettore? Nè può destare meraviglia che neppure gli orrori che il razzismo ha scatenato sull'umanità abbiano distrutto gli atteggiamenti da esso creati: la verità è che un movimento di tale potenza e influenza lascia la sua impronta sulla storia per molte generazioni.
il Paese che in teoria dovrebbe essere meglio preparato, e se si vuole «vaccinato» rispetto alle sirene del nazionalismo e dell’estrema destra, è in realtà profondamente vulnerabile. Di fronte alle crisi degli altri i tedeschi hanno la risposta pronta, ma quando i problemi arrivano a casa loro temo che in un numero sempre maggiore dimentichino perché per tanti anni hanno scelto la democrazia invece del fascismo.
Bisogna ribellarsi.
Per ridurre e contrastare questo fenomeno dilagante, la gente per bene deve ribellarsi.