Il mondo metafisico del fotografo Augusto De Luca
Una fotografia che restituisce nuova vita ad ogni soggetto. Un’immagine che trascende dalla semplice rappresentazione del reale. Il fotografo partenopeo Augusto De Luca con il suo personalissimo punto di vista, dalla metà degli anni ’70, ha segnato in maniera indelebile il panorama della fotografia italiana e internazionale, apre le porte del suo mondo e ci lascia sbirciare al suo interno spaziando tra diverse arti, sogni metafisici ed espedienti fotografici per riportare un po’ di ordine nel mondo.
Esperienze diverse hanno segnato la sua formazione, dagli studi in giurisprudenza a una grande passione per la musica, per poi giungere ad una conoscenza più consapevole dell’arte figurativa. Cosa ha influenzato maggiormente la sua ricerca visiva e lo stile compositivo? Nel 1996 io ed Ennio Morricone collaborammo al progetto del libro Roma Nostra, per il quale ricevemmo entrambi il premio "Città di Roma". In quella occasione lui mi disse: "Ho capito subito che sei anche un musicista perché le tue fotografie hanno un ritmo compositivo musicale che appartiene a chi è sensibile all'armonia dei suoni". Allora compresi che sicuramente la musica aveva in qualche modo influito ed influenzato la mia creatività. Sono comunque convinto che dentro di me c'è il germe dell'uomo madre, un uomo, cioè, con una grande voglia di partorire, generare idee, che, a seconda del momento, si traducono in immagini, performance, brani musicali o altro. Devo però ammettere che forse la fotografia è nata anche per soddisfare la mia totale incapacità di dipingere. Lo stile invece, come spesso ho detto, nasce dalla risultanza di tutto ciò che hai visto, più un qualcosa di assolutamente tuo che caratterizza in maniera inconfondibile ed inequivocabile ogni opera. In realtà avviene un miracolo ogni qual volta riesci a fare una foto che è riconoscibilmente tua. La riconoscibilità è fondamentale per ogni artista. Devo aggiungere, inoltre, che, in particolar modo, due autori straordinari hanno ispirato il mio modo di fotografare, Bill Brandt e Irving Penn, che io considero certamente due giganti della storia della fotografia.
Le sue foto sono caratterizzate da una ricercatissima composizione dell’immagine, un misurato equilibrio tra pieni e vuoti, luci e ombre. Qual è il processo creativo che conduce ad immagini tanto studiate? Anche se sembrano studiati, la maggior parte delle mie immagini non sono preventivamente calcolate. Avviene tutto al momento della ripresa e in poco tempo; alcune foto sono addirittura il risultato di un solo scatto. Di solito, anche per i ritratti vado sul posto e comincio a girare intorno, fin quando non trovo la mia inquadratura. Spesso metto in relazione il soggetto ad un qualche cosa, ad un oggetto che gli appartiene o che lo caratterizza o che mi attrae particolarmente e che trovo in quel luogo. Avviene tutto spontaneamente e semplicemente. Ogni volta, però, è una sfida ed un mettere alla prova la mia capacità intuitiva e creativa. Probabilmente, poi, quell'equilibrio che caratterizza il mio modo di fotografare, deriva da un mio bisogno interiore di pulizia e ordine, che non trova riscontro nella realtà esterna. È un desiderio che, purtroppo, si realizza solo nelle mie opere, ma che vorrei appartenesse al mondo.
Con le sue prospettive e la raffinata ricerca formale riesce a traghettare i soggetti verso una realtà altra, metafisica. Quale filosofia si cela dietro il suo lavoro? Quel desiderio, direi anche quell'esigenza di Metafisica, nasce proprio dal mio bisogno di sognare, di essere in un mondo iperuranio. La fantasia, l'immaginazione, il miraggio, hanno sempre fatto parte di me. Forse perché da figlio unico, fin da piccolo riempivo i miei "spazi" con realtà altre, che, in qualche modo, sopperivano e riempivano i vuoti. Questo è stato un allenamento continuo e spontaneo che, con il tempo, ha sviluppato in me anche una grande capacità di estraniarmi, vivendo in maniera reale mondi e situazioni sognate e inverosimili. Chiaramente, tutto questo si evince proprio dalle mie immagini, che sono lo specchio, il riflesso di ciò che ho dentro.
Ha sperimentato molto sia con fotografie a colori sia con quelle in bianco e nero. Quali specifiche potenzialità riconduce a tali mezzi espressivi? A differenza di molti fotografi, ho iniziato con il colore per poi passare al bianco e nero, ribaltandone le possibilità espressive; infatti ho utilizzato il colore per evidenziare e sottolineare non il realismo della scena, ma, con tagli inediti, strutture astratte e metafisiche e, con il bianco e nero ho rappresentato, invece, la realtà, fotografando diverse città e ritraendo molti personaggi famosi. In poche parole ho esaltato ed eliminato alcune caratteristiche di ciascuna modalità espressiva. Con il colore ho esaltato, dato valenza espressiva ed importanza alla sua peculiarità primaria: il cromatismo. Con il bianco e nero, al contrario, ho esaltato le forme, le linee dei soggetti, dandone una lettura più essenziale ed irreale, per un’interpretazione più trascendentale che facesse sognare ed immaginare il fruitore.
Attraverso il suo obiettivo ha raccontato molte città realizzando immagini che si discostano dal crudo fotoreportage e da una romantica visione da cartolina. Cosa attrae davvero il suo occhio fotografico? Quando fotografo una città, cerco di immortalare il paesaggio scontato e banale, in maniera imprevedibile e inattesa. Tutto dipende dal punto di ripresa e dal taglio dell'immagine. Spesso, nella mia inquadratura, appare in primo piano un elemento grande, che, anteponendosi, non solo nasconde informazioni inutili che altrimenti sarebbero visibili, ma entra in relazione con il soggetto sullo sfondo, in secondo piano, comprimendolo in un lato dell'inquadratura e quindi mettendolo in evidenza. Questa è una tecnica che spesso ho utilizzato anche nei ritratti.
Napoli è la sua città. Le ha dedicato molti libri fotografici e ha portato avanti alcuni progetti e performance per valorizzarla, arrivando anche a conquistarsi l’appellativo di “il Cacciatore di Graffiti”. Cosa ha significato per lei dar vita ad un’operazione come “Madre Snaturata”? Questa operazione dava voce a tanti artisti meridionali esclusi dal circuito dell'arte. Quale madre dimentica i propri figli? Questo era il dubbio alla base dell’operazione “Madre Snaturata” promossa da me e dall'artista Iabo. Sabato 25 aprile 2009 alle ore 21:00 il museo Madre di Napoli, inaugurava la collettiva Urban Superstar Show. La mostra vedeva la partecipazione di ben 33 artisti italiani e internazionali, però non erano stati invitati artisti provenienti da Roma in giù. Dove era finita l’arte del meridione? Come è possibile che un museo come il Madre, che ospitava un evento, il primo di tal genere, dedicato alla Urban art e Street art italiana e internazionale, non contemplasse nessuno dei suoi legittimi figli? Indignati ed offesi dal tradimento ideammo l’operazione “Madre Snaturata”, dando vita a un video e ad una mostra di tantissimi writers e street artist del sud Italia che, in strada fuori al museo, proprio il giorno dell'inaugurazione, proposero le loro opere ed happening. Tanti gli sticker incollati sui muri e le performance come quella del crew Satoboy che invase l'entrata del Madre con tanti bambolotti imbavagliati, per rappresentare i figli di una "Madre Snaturata" che non possono parlare e non si possono esprimere. Un’azione di sabotaggio pacifica la nostra, ma che voleva far sentire la sua voce. L’arte finiva a Roma e questo non era accettabile. Con questa operazione ho quindi cercato, ancora una volta, di valorizzare un settore dell'arte che io amo molto: l'arte in strada.
Nella sua carriera ha ritratto moltissime personalità famose, da Renato Carosone, Carla Fracci, Hermann Nitsch, a Giorgio Napolitano, per citarne solo alcune -. C’è stato un incontro che l’ha colpito particolarmente e che ricorda con maggiore piacere? Sono tanti i ricordi e i personaggi che ricordo con grande piacere, tra questi la mia amica Lina Wertmüller. Ho vissuto per diversi anni a Roma e quando mi trovavo nei pressi di Piazza del Popolo quasi sempre mi recavo a casa sua, in una stradina laterale appena dietro la piazza. Conosco Lina perché ha firmato delle bellissime prefazioni a due miei libri fotografici: ‘Napoli Donna’ e ‘Roma nostra’. In questo appartamento su due livelli Lina spalanca sempre le sue porte soprattutto a chi è napoletano. Ama Napoli e le sue tradizioni. Tra un piano e l’altro c’è una accogliente scala di legno e salendo, a destra sulla parete, mi ha sempre colpito un bellissimo, enorme ritratto su tela di San Gennaro fine ‘600, sicuramente attribuibile a Francesco Solimena o a qualcuno assai vicino a lui. Puntualmente, con un mezzo sorriso e un’aria complice e sorniona, dopo un po’, la domanda era sempre la stessa: "Ma le vuoi due pizzelle?" Sembrava non aspettasse altro che il mio consenso. Le adorava. Ogni volta ordinava delle pizzette con pomodoro, mozzarella e una foglia di basilico, calde e profumatissime. A casa sua erano immancabili. Credo che siano il suo piatto preferito. Così, in una di queste mie visite, le chiesi se potevo farle un ritratto. Mi feci dare uno dei tantissimi e famosissimi suoi paia di occhiali bianchi, andammo sul terrazzo per avere uno sfondo omogeneo e io cominciai a scattare. Lei sorrideva mentre la inquadravo perché non capiva bene cosa facessi con quegli occhiali che mantenevo con la mia mano sinistra avanti all’obiettivo. Quando dopo qualche giorno le portai la foto mi disse: "Ma la foto è agli occhiali o a me? Ah, sì, certo… siamo una cosa sola". E sorrise compiaciuta. Grande regista e grande donna.
Oltre ad essere un grande professionista della fotografia italiana è stato anche docente della materia. Qual è il messaggio che ha cercato di trasmettere ai suoi alunni? Ho insegnato fotografia per molti anni a Napoli in una mia scuola patrocinata dalla Kodak e poi, per tre anni, alla Camera dei Deputati al Circolo Montecitorio e, ancora oggi, mi chiamano per stage e workshop un po' in tutt'Italia. Nei miei allievi ho sempre cercato di risvegliare la gioia e l'amore verso la creatività. Una frase di Paul Gauguin in particolare, mi ha costantemente accompagnato: “L'arte o è plagio o è rivoluzione”.