La presunzione d’innocenza è un principio cardine di ogni Stato di diritto. Garantisce che ogni individuo sia considerato innocente fino a prova contraria, confermata in via definitiva da un processo giusto e trasparente. Questo pilastro della giustizia non è negoziabile: protegge i diritti fondamentali del cittadino e preserva la società dall’arbitrarietà del potere. Tuttavia, ci sono contesti e situazioni in cui tale principio, pur restando intatto nella sua valenza giuridica, deve confrontarsi con l’esigenza di tutelare il decoro e l’integrità delle istituzioni pubbliche.
Chi ricopre ruoli istituzionali è chiamato non solo a rispettare la legge, ma anche a mantenere un comportamento che sia irreprensibile sotto il profilo etico e politico. L’onore delle istituzioni è una responsabilità collettiva, e ogni episodio che ne intacca la credibilità rischia di minare la fiducia dei cittadini.
In questo senso, il caso di Daniela Santanchè rappresenta un esempio emblematico. Il rinvio a giudizio della ministra evidenzia, ancora una volta, come la condotta di chi esercita funzioni pubbliche debba essere sottoposta a uno scrutinio particolarmente rigoroso. Al di la delle questioni giudiziarie, è l’opportunità politica a dover guidare le scelte di chi governa. Non si tratta di anticipare i tribunali o di cedere al giustizialismo, ma di salvaguardare la dignità delle istituzioni attraverso scelte responsabili.
Il Parlamento ha il dovere di non chiudere gli occhi di fronte a situazioni che compromettono la credibilità dell’azione politica. Quando un rappresentante delle istituzioni è coinvolto in vicende che sollevano dubbi sulla sua integrità, il principio di presunzione d’innocenza non può essere un alibi per ignorare le ricadute politiche e morali della sua permanenza in carica.
Nel caso della ministra Santanchè, il silenzio o l’inerzia rischiano di essere percepiti come una forma di complicità. L’assenza di una presa di posizione chiara è un messaggio deleterio, che alimenta il distacco tra i cittadini e la politica, aumentando la sfiducia verso le istituzioni.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, già in passato, ha scelto di difendere la ministra Santanchè, ignorando le critiche e le ombre sulla sua gestione. Una decisione che ha inevitabilmente leso l’immagine del Paese, già appesantita da una percezione internazionale spesso critica verso l’Italia. Oggi, di fronte al rinvio a giudizio, è necessario un cambio di passo.
Meloni ha la responsabilità di anteporre l’interesse nazionale alle logiche di partito. Salvare Santanchè ancora una volta non solo danneggerebbe ulteriormente la reputazione del governo, ma rischierebbe di trasmettere un messaggio devastante: che le istituzioni siano pronte a tollerare comportamenti discutibili pur di preservare equilibri politici interni.
No al giustizialismo, ma sì al rispetto della trasparenza e della responsabilità. La presunzione d’innocenza deve restare un faro per la giustizia, ma per chi ricopre ruoli istituzionali è imprescindibile un approccio più severo in termini di opportunità politica.
Il caso Santanchè non è solo una questione personale o giudiziaria: è una prova di maturità per la politica italiana. Ignorare le implicazioni di questa vicenda significherebbe tradire la fiducia dei cittadini e compromettere ulteriormente l’immagine del Paese. Ora più che mai, è necessario un segnale chiaro: le istituzioni vengono prima degli interessi individuali.