Covid, il caos del sentimento collassante della società
Sempre più è osservabile l’aumento delle pressioni emotive che l’ondata di Covid, il modo in cui il ritmo del lavoro e la quotidianità sono stati stravolti.
Titolari disperati per le spese da pagare che presentano uno scadenzario, pena la soppressione dei servizi, pertanto l’impossibilità di poter lavorare, faccio l’esempio di un ristoratore come molti che al mancato pagamento delle bollette luce e gas, gli è stato sospeso il servizio, la banca lo priva di prestiti; poi fornitori, affitto e la merce deperibile che non viene risarcita dall’assicurazione perché le modalità per cui queste si sono guastate, non rientrano nelle ragioni per cui possono essere rimborsate. Ma va inserito anche chi nell'edilizia accusa significativi aumenti dei costi dei materiali e larghi ritardi per le consegne a causa dell'aumento dei controlli e della burocrazia import-export. Quindi un potere d'acquisto in diminuzione ed un aumento dei costi.
Titolari che per impossibilità fanno mancare stipendi ai dipendenti, cosa che crea un auto giudizio negativo, nonostante la crisi sia dovuta, ora, a questa diffusione virale che impone ai ristoratori (per esempio) di essere più chiusi che aperti e quindi di guadagnare enormemente meno anche solo dei costi passivi.
Titolari disperati per paura, nonostante gli affari non gli diano preoccupazioni, questi reagiscono allo schema tipicamente capitalistico sviluppatosi nel nord Italia nel dopoguerra degli anni '50, “il paradosso della sicurezza” (si mette da parte un gruzzoletto, e quando questo diventa un gruzzolotto, temendo di perderlo, ne creo un altro, e cosi un altro e poi un altro, per sicurezza, no?).
Il problema di questo processo è che da vita alla catena secondo cui più si accumula ricchezza e più si teme di perderla (accumulo A, creo B per non perdere A, quando B è tanto quanto A, creo C, che sarà equivalente alla somma di A+B). E’ una rincorsa infinita, la ricchezza aumenta contemporaneamente alla paura di perderla, ci si sente intrappolati in un limbo di costante insufficienza, mancanza e pericolo.
Si è nel “fare” per salvarsi dallo scenario puramente mistico, secondo cui il “non si sa mai” è un “da un momento all’altro mi capita”. Il titolare che quindi investe più sul posto di lavoro possiede meno tempo per “voltare pagina” ed essere più presente in famiglia (non si intende solo fisicamente, se la testa pensa al domani, al lavoro, ad altro, non si è presenti) e comprensivi, aperti agli altri punti di vista, alle preoccupazioni e priorità altrui; ciò che conta sono le proprie preoccupazioni e chi non le comprende viene spesso allontanato e maltrattato (dipendenti e famigliari).
Un tempo questa era una caratteristica maschile, oggi sempre più anche femminile (il rovescio della medaglia del femminismo e della mancanza di parità, ad un potere le dovute responsabilità, la donna ha un qualcosa in più di prima, e deve sottrarsi un po' al dovere e piacere di mamma e moglie, mentre l’uomo non si occupa ancora abbastanza della famiglia, sentimentalmente parlando, credo quindi ci voglia un maggiore investimento sulla paternità sia per parità che per presenza pari di entrambi i genitori in fase neonatale, non solo per il bene del figlio, ma anche per il bene della mamma, che se lei deve badare al piccolo, ebbene il compagno deve badare a lei, creare legami mancanti e migliorarne i preesistenti).
Titolari che scaricano tutto sui dipendenti, che a loro volta hanno bisogno di scaricare il carico subito, e se non si possiedono mezzi che forniscono la possibilità di buttar fuori ciò di cui ci si è fatti carico, sono i familiari a dover assorbire quella negatività. Arriviamo ai dipendenti.
La paura di perdere il posto di lavoro, di sentirsi sbagliati (o nel linguaggio adolescenziale “sfigati”), di non poter provvedere economicamente alle necessità familiari.
E poi l’identità sociale, come si crede che gli altri giudichino chi ha perso il lavoro, il timore di ricominciare da capo in un’azienda nuova, con persone nuove, a volte con un lavoro da dover imparare da zero, il timore di essere assunti con contratto determinato, ritrovandosi punto e a capo, più vecchi e demotivati. Lo stesso vale per i più giovani, a loro volta preoccupati per il proprio futuro, chi crede che non ci sia futuro, chi invece dagli scenari futuri non trae attrazione. In entrambi i casi si soffre, e per far smettere il tormento interiore si abbassa la percezione del dolore, e qual è la situazione opposta del dolore?
Il Piacere; non si può polarizzare il sentimento, non esiste tutto il bene o tutto il male, il mondo interiore, come quello esteriore è comprensivo di tutto; ma in un sistema in cui non si educa ai sentimenti, l’incapacità di far fronte ai problemi con soluzioni costruttive, permette agli individui di chiudersi a riccio, di creare uno scudo. Ecco che non si desidera più, spariscono i sogni, non si generano scenari attrattivi, cui con il proprio impegno è possibile avvicinarsi a quel sogno ed ottenere quel desiderio.
E in una società in cui ci si chiude sentimentalmente a riccio, le relazioni non si maturano, ma vivono di un fuoco di paglia perlopiù sessuale, perché i corpi sono ciò che permettono di non soffrire, perché il sesso si può ottenere senza mettere in gioco i sentimenti; durando quel che dura. Fattore che si propaga con tutte le relazioni, colleghi, titolari, amici, parenti, insegnanti.