Un rapporto complesso quello tra la comunità ebraica e l’antica Venezia, ma proficuo per entrambe: per le le casse della Serenissima da una parte e per la tolleranza sconosciuta nel resto d’Europa che gli ebrei trovarono a Venezia.


Le prime comunità in terraferma

Pare che una prima testimonianza della presenza ebraica nel territorio veneziano risalga al 932 a Mestre dove nel 1152 si censirono circa milletrecento membri. Invece, recenti studi hanno confutato la presenza degli ebrei nell’isola della Giudecca, come erroneamente e a lungo ritenuto. Infatti il nome non deriva da “giudeo”, ma da “zudecá”, cioè “giudicati” in veneziano, perché sull’isola venivano confinati i patrizi giudicati colpevoli di reati minori verso la Serenissima.

Da Mestre gli ebrei si recavano a Venezia per i loro commerci ed esercitavano anche la tradizionale attività di prestare denaro. Infatti, siccome tra cristiani era vietato esigere interessi sul denaro prestato, difficilmente chi ne aveva bisogno trovava un prestatore. Quindi questo lavoro “sporco” per i cristiani era stato lasciato ai giudei. Per altro costoro non erano considerati cittadini della Serenissima e nel 1298 venne imposta loro una tassa specifica del 5% sull’attività commerciale e stabilito un tetto massimo del 10% al tasso d’interesse sul denaro prestato.

Nel 1384 agli ebrei era stato concesso il soggiorno a Venezia per quindici giorni ogni quattro mesi, ridotti poi a quindici l’anno. Tuttavia l’imposizione non era stata applicata sempre con rigore, motivo per cui se ne trovavano un poco ovunque in città anche se in numero sparuto.


Dopo il 1509: conseguenze della guerra di Cambrai

Poi era venuta la disfatta di Agnadello, nel maggio del 1509, e le cose erano cambiate.

Gli eserciti della Lega di Cambrai promossa da papa Giulio II con gli Asburgo, Francia, gli Este, i Gonzaga, i Savoia, il re di Napoli erano giunti a un passo dalla laguna. In fuga dagli invasori, gli ebrei di terraferma avevano ottenuto temporaneo rifugio in città.

In seguito le cose si erano messe meglio e, man mano che le armate venete avevano liberato i territori occupati dai nemici, erano stati rimandati a casa, ma non tutti avevano lasciato Venezia.

Nel frattempo la guerra, benché vinta, aveva consumato fino all’ultimo spicciolo delle casse statali e la necessità aguzzò l’ingegno. Qualcuno aveva osservato che quella gente avrebbe potuto rendere allo stato più di quanto aveva fatto fino ad allora standosene in terraferma.


Tempi di dialogo e di … tasse

Era così iniziato il difficile dialogo tra le comunità giudaiche e le magistrature preposte al loro controllo, gli Ufficiali al Cattaver in primo luogo, ma anche i Savi alla Mercanzia e l’onnipresente Consiglio dei Dieci ci avevano messo del loro. Verso la metà del 1513 quest’ultimo aveva stipulato un primo accordo, diventato definitivo tre anni dopo.

In cambio di questa “condotta” era stato richiesto il versamento di una imposta salata alla quale i giudei avevano fatto fronte pur lagnandosi. Erano stati loro permessi il commercio in roba usata, la “strazzaria”, però tramite intermediari cristiani, e la professione medica nella quale era nota la loro competenza. A questi ricorrevano anche i cristiani a dispetto della proibizione ecclesiastica, ma la salute, se non la pelle, era evidentemente più importante dell’osservanza delle regole.

Agli ebrei era stato imposto di gestire i banchi di prestito su pegno con l’occhio vigile dello stato a controllare che i tassi praticati non sconfinassero nell’usura, cosa tutt’altro che rara. Vietate le attività manifatturiere riservate alle arti e alle corporazioni alle quali non erano ammessi. Gli ebrei avrebbero potuto vendere, non produrre, ma talvolta si era chiuso benevolmente un occhio, come nel caso dei bottoni in osso d’animale, bottoni di poco prezzo che i giudei producevano senza far troppo chiasso.


L’istituzione del ghetto

Sancito l’accordo, il governo aveva preso le sue brave precauzioni affinché gli ebrei non si spargessero ovunque, magari in coabitazione con i fedeli di Santa Madre Chiesa, e girovagando “zorno e note dove li piace… con offension gravissima di la Maestà Divina”, come qualcuno aveva detto. Sicché i cancelli della segregazione si erano chiusi alle loro spalle quando una legge del 1516 aveva prescritto per i giudei l’obbligo di “andar immediate ad Habitar unidi in la corte de’ case che sono in Geto appresso San Hironimo, luogo capacissimo per sua habitatione”.

Era stato così istituito il primo ghetto in contrada San Girolamo, zona dove un tempo venivano gettati gli scarti della fusione dei metalli, secondo alcuni, oppure dove avevano funzionato delle fonderie per la costruzione di bombarde, secondo altri. Il “geto” sarebbe stato il colare del metallo fuso, oppure il “getar” gli scarti. Invece, per altri ghetto sarebbe derivato da “ghettare”, cioè affinare il metallo con la “ghetta”, un ossido di piombo piuttosto tossico.

I primi a trovare alloggio in Ghetto Nuovo erano stati gli “Ebrei Aschenaziti”, cioè tedeschi. Costoro avevano storpiato il termine veneziano “geto” in “gheto” a causa della pronuncia della “g” dura propria della lingua germanica. Da questo al vocabolo “ghetto” sarà un passo breve e da allora il termine varrà per tutto il mondo e per sempre.


Regolamentazione del ghetto

Il ghetto aveva le sue leggi, precise, severissime: due porte, l’una presso “un ponteselo piccolo e similmente dall’altra banda”, aperte all’alba al suono della Marangona, cioè una delle campane di San Marco che chiamava al lavoro i “marangoni”, cioè i falegnami dell’Arsenale, e chiuse al tramonto; multa di cento lire, raddoppiata e poi quintuplicata, più due mesi di cella, a chi persisteva nel chiedere permessi per uscire durante la notte; a guardia delle porte quattro custodi residenti in loco, cristiani, senza famiglia e scelti dal governo, ma pagati dagli ebrei senza curarsi dell’umiliazione per il recluso obbligato a mantenere il proprio carceriere; murate le rive dei canali e tutte le porte e finestre che davano su questi con due barche di ronda per un vigile controllo, sempre a spese dei relegati; permessa un’osteria e dapprima vietate le sinagoghe che saranno autorizzate in seguito; nessuna esenzione all’obbligo di soggiorno nel ghetto neppure dietro pagamento; facoltà di uscita notturna per i ricercatissimi medici giudei, previa consegna ai guardiani della lista dei loro impegni, trasmessa poi agli Ufficiali al Cattaver che si sarebbero premurati di “diligente inquisition se l’è vero che siano stati a li lochi dicti”.

Le porte del ghetto “Nuovo”, che nel frattempo erano diventate quattro con l’aggiunta dei ghetti “Vecchio” e “Nuovissimo” e senza che nessuno si stupisse se qualcosa di “nuovo” fosse preesistito a qualcos’altro di vecchio, saranno definitivamente aperte nel maggio del 1797 da un generale francese, Napoleone Bonaparte.

Con il tempo le regole erano diventate più miti: dopo il permesso per le sinagoghe, sul finire del XVI secolo era stato concesso il funzionamento di una tipografia. Si era sorvolato su qualche piccola attività artigianale alla faccia del divieto di produrre alcunché. Avevano goduto di qualche privilegio suonatori, maestri di musica, di canto e letterati.


Allargamento del ghetto e nuovi accoglimenti

Il Ghetto Nuovo si era allargato e poi congiunto al Ghetto Vecchio, istituito su iniziativa dei Savi alla Mercanzia per far posto ai Levantini, ebrei espulsi dalla penisola iberica nel 1492.

Costoro erano così chiamati perché prima di emigrare a Venezia avevano trovato rifugio nell’Impero Ottomano. Il governo li aveva accettati nella prospettiva che rafforzassero il commercio con l’Oriente danneggiato da guerre e altri guai occorsi nella prima metà del Cinquecento. Ogni tanto c’era stata anche della tolleranza, soprattutto quando di mezzo c’erano fior di zecchini.

Alla fine del secolo ai Levantini si erano aggiunti i Ponentini, i discendenti degli ebrei spagnoli e portoghesi che avevano evitato la cacciata con il battesimo, ma erano finiti braccati dalla Santa Inquisizione per il sospetto di praticare il giudaismo in segreto, cioè di essere “vili marrani”. Come quelli di un secolo prima, se ne erano andati anche loro prima in terra turca e in altre città italiane, infine a Venezia.


L’urbanistica nei ghetti

L’istituzione dei ghetti aveva imposto anche una questione urbanistica. Gli spazi ristretti avevano spinto a innalzare immobili fino a otto piani. Per alleggerire il peso di tali costruzioni poggiate su infidi terreni sabbiosi le pareti esterne erano piuttosto sottili, quelle interne in legno, i soffitti molto bassi. Per sfruttare ogni spazio interno disponibile, le scale giravano all’esterno degli edifici con una disinvoltura che teneva conto solo del profitto, tanto che furono chiamate “scale matte”.

Al pianterreno erano posti i magazzini degli straccivendoli e i banchi dei pegni che prendevano nome dal colore delle ricevute rilasciate: banco rosso, banco verde, ecc. Ai tempi del primo insediamento degli ebrei tedeschi erano stati quantificati in una decina, poi erano cresciuti di numero dietro esborso di diecimila ducati per ottenere il permesso dalle autorità sempre pronte ad allungare le mani nelle scarselle dei giudei.

Poiché agli ebrei non era concesso possedere case, certuni avevano goduto di ampi vantaggi ad affittare loro alloggi infliggendo canoni superiori anche di un terzo rispetto a quelli di mercato.


La forza del ghetto

Il ghetto rinchiudeva, ma anche proteggeva. Venezia di notte per un ebreo poteva diventare pericolosa, una città che covava un rancore spesso manifesto nei confronti degli uccisori del Cristo, come ovunque nella cristianità. E se non era questo il motivo, c’era il risentimento di chi si era indebitato con qualche banchiere ebreo a interessi che non sempre rispettavano i limiti di legge.

Perfino la sepoltura dei defunti di fede ebraica non era rispettata dai cristiani: impensabile tumularli in terra consacrata, nel 1386 era stato concesso loro di acquistare un terreno a San Nicolò di Lido come cimitero, teatro peraltro di frequenti profanazioni. Per lo più le barche che traslavano le salme dal ghetto verso l’estrema dimora e i loro accompagnatori erano oggetto di insulti, scherni, minacce, lanci di immondizie, pitali e tutto un corollario di bravate con le quali il popolino sfogava il suo rancore nei confronti del popolo di Mosè. Proprio non si riusciva a dimenticare quella croce sul Calvario.

Solo nel 1668, a spese della comunità giudea, fu autorizzato l’escavo del “canale degli hebrei” per facilitare il transito dei cortei funebri verso il cimitero sottraendoli agli insulti della plebaglia.


Rinnovo delle “condotte”

Se quasi inesistenti agli inizi del Cinquecento, il numero totale degli ebrei residenti in città crebbe con gli accoglimenti di Levantini e Ponentini. Circa settecento nel 1516 all’apertura del primo ghetto, più che raddoppiato quindici anni dopo, sceso a 1043 per le pestilenze nella seconda metà del secolo, il numero si era impennato in 1694 nel 1586.

Al periodico rinnovo delle condotte si apriva puntualmente un capitolo doloroso per le borse dei giudei, con l’introduzione di clausole sempre più vessatorie che avevano finito con il soffocare i banchi dei prestiti su pegno. Per altro nel corso del Cinquecento non se l’erano cavata meglio le stesse banche dei cristiani travolte da difficoltà economiche. Si era così giunti alla revisione degli accordi con la comunità ebraica. Il gravoso tributo era stato abolito, ma in cambio gli ebrei si erano dovuti accollare una volta per tutte la gestione dei banchi dei pegni, un’attività inevitabilmente in perdita e che nascondeva sotto sotto della buona usura a dispetto del rigido controllo.

Invece avevano fatto un buon affare quei ricchi patrizi ai quali si rivolgevano gli ebrei quando restavano a secco di denaro, perché in questo caso era consentito ai cristiani percepire interessi da chi cristiano non era.


Da straccivendoli a ricchi mercanti

Nel contempo la “strazzaria” si era trasformata in un’attività ben più lucrosa di quanto il nome avrebbe lasciato intendere. Poi verso il 1590 erano stati ammessi al grande commercio con il Levante, attività tradizionalmente riservata a patrizi e cittadini. I capitali veneziani si andavano progressivamente ritirando dai commerci per essere investiti in terraferma, lasciando un vuoto assolutamente da colmare.

I risultati non si erano fatti attendere: sei anni dopo l’ambasciatore di Costantinopoli informava il governo che due terzi del commercio con la capitale turca era in mano a mercanti ebrei e Francesco Sansovino aveva annotato che essi “per il negotio sono opulentissimi”.


Le “nationi” e l’autogoverno della comunità

La comunità era retta da un “Capitolo”, o Consiglio degli Ebrei, una sorta di autogoverno dal quale, tuttavia, tutti tentavano di defilarsi e avevano le loro brave ragioni. Infatti, a questo consesso era stato affidato il fastidioso incarico di mantenere i rapporti con le autorità, incarico mai facile e dagli esiti spesso oggetto di lamentele da parte della comunità suddivisa in quattro “nationi”: tedesca, italiana, ponentina e levantina. Ciascuna aveva la propria assemblea per occuparsi degli affari religiosi e la propria sinagoga con funzioni celebrate secondo i rispettivi riti. Le questioni più delicate, come quella riguardante le imposte da versare allo stato, erano demandate a un’assemblea generale di circa ottanta membri.