Chissà se ancora qualcuno ricorda l’immagine della moda italiana nel mondo, prima dell’exploit degli anni ottanta. Le firme erano eccellenti, sia in campo femminile che maschile, e ne citiamo due a mero titolo di esemplificazione: le sorelle Fontana nel primo reparto, Angelo Litrico nel secondo, gente che vestiva i VIP dell’orbe terracqueo, con attività che continuano tuttora (tralasciando the king Valentino).

Che lo stivale sia culla dello stile non è un mistero e non occorre essere patriottardi per riconoscerlo. Vero è che, nel decennio “ da bere”, sembrava tutto un fiorire di nuovi sarti, anzi no, “stilisti”: perché poi, disegnare è una cosa, realizzare materialmente un’altra, e le due attività sono state separate. Chi disegna si lancia in turbini di fantasia, chi deve tagliare e cucire impazzisce. Fu allora che la figura della mannequin cambiò nome ufficiale, e divenne “top model” ( in area anglosassone “supermodel”). Non che prima non esistessero, e ce ne furono molte, talora divenute attrici (un nome italiano per tutti, Elsa Martinelli), ma la moda inizialmente parlava francese: i cugini d’oltralpe dovettero subire l’affronto del nostro sorpasso nel cuore dei ricchi e famosi, e quello della lingua inglese nel lessico fashion. Milano divenne l’epicentro dell’avanguardia italica, sostituendo Roma che lo era stata in precedenza.

Prese dunque piede la figura della modellona strafiga, di solito bella e dannata, esotica anche quando, come Naomi Campbell, si trattava di un’ inglesissima signorina, e nemmeno la prima dalla pelle ambrata ( ricordiamo Pat Cleveland, Donyale Luna, morta di overdose a 34 anni, e Iman Bowie).  Naomi divenne addirittura un’ icona anti apartheid ( anche se con fidanzati ufficiali coloured, non si è vista mai), e Claudia Shiffer il sogno erotico del mondo più white, così erano contenti tutti ( però Claudia non da soddisfazioni carnali nelle sue foto, dove appare abbastanza frigidaire). Molti hanno dimenticato l’americana Gia Carangi, che avrebbe superato tutte in celebrità, se non avesse trascorso la sua breve esistenza (ventisei anni) a iniettarsi eroina, così perdendo anche un lavoro proprio per Gianni Versace. 

Più o meno l’opinione pubblica conserva i vaghi ricordi del film vanziniano “Sotto il vestito niente”, o di libri come “La sfilata”, di Renzo Barbieri, che ci descrive un’accolita di geniali dissoluti. Ciliegina sulla torta, coronò le ombre su quell’ambiente la scabrosa vicenda mondano/penale di una ragazzona della Carolina del Nord, Terry Broome, che nel 1984 uccise, a Milano, il playboy Francesco D’Alessio, responsabile, forse, di averla dileggiata come ragazza facile: ma la Broome non era in realtà un’indossatrice, al massimo ambiva a diventarlo sulle orme della sorella Donna. Al tempo pochi tifavano per la vittima, descritto come un figlio di papà odioso e umanamente squallido, ma sulla verità del fatto, per esempio Dagospia ( 2 settembre 2020) avanza perplessità.

In questo climax turbolento si inserisce la scalata in vetta dei nostri fashion designer, che ispireranno il linguaggio, lo stile di vita, i reality su chi è più “in “ e chi è decisamente “out” da nord a sud, da est a ovest: ignare (per scena) donne e qualche uomo presi, insultati per il loro cattivo gusto, rivestiti e poi rimandati dietro le quinte con tanti saluti.

Non si può far torto ad alcuno con classifiche di codesta aristocrazia della haute couture ( poi sfociata democraticamente nel pr^et à porter), ma è fuor di dubbio che, nel paese di Bartali e Coppi, una contrapposizione doveva arrivare, e puntualmente ce la danno in pasto: Giorgio Armani e Gianni Versace. 

“Cosa ricordo di Gianni Versace a quindici anni dalla sua morte? La sua incredibile esuberanza, quel senso di felicità con cui sapeva mixare tutto: idee, trend, ricordi, arte, con quella sorta di nonchalance. Era un grande creatore”, scrive Armani nella prefazione del libro “Gianni Versace, la biografia” di Tony Di Corcia” (Myluxury.it 22/11/2012).

Ma, tre anni dopo: Da Huffington Post, 24/04/2015 “Lo stilista (Armani ndr)… oltre ad aver dichiarato che "gli omosessuali sono uomini al 100% e per questo devono vestirsi da uomini", ha ricordato un episodio che lo ha visto protagonista insieme a Gianni Versace. "Eravamo a Roma e ci siamo incontrati in Piazza di Spagna per un evento di moda" ha confessato Armani. "Gianni stava guardando i modelli e mi ha detto: 'Io vesto le troie, tu le suore' ". La famiglia del defunto rivale non gradì queste affermazioni.

Giorgio, algido piacentino dagli occhi di ghiaccio, trasmette atmosfere e spifferi glaciali anche sulle passerelle, a differenza del reggino Gianni, multiforme, esplosivo, innovatore a partire dalle sue collezioni sadomaso, insomma mediterraneo.

I Versace sono originari appunto di Reggio Calabria e le cronache ci hanno sempre narrato di mammà sarta, che avrebbe ispirato l’illustre figliolo: il quale, una volta installato saldamente nei suoi atelier, chiama a lavorare con sé il fratello Santo, occupato sul versante gestionale, e la sorella minore Donatella, secondo le chiacchiere sua prediletta, cocca di famiglia e solidale con lui in tutte le scelte: di più, qui, non possiamo dire, ma il citato Renzo Barbieri, senza troppi veli, ha ricamato sul funzionamento di certi rapporti.

Gianni è una stella senza pari quando, negli anni novanta, annuncia di aver superato una grave malattia e mostra al pianeta, più ancora che in passato, l’uomo che ama da molto tempo, da quando dura il suo successo: il pugliese Antonio D’Amico, di cui diventa mentore, tanto da farne uno stilista nella sua linea sport. 

Tutto bene, dunque? Purtroppo no, e sappiamo com’è andata. Il 15 luglio 1997 il cinquantenne Gianni è a Miami, nella sua villa di Ocean Drive, chiamata “Casa Casuarina”, lussuosa non solo per le dimensioni, lo stile e l’arredamento, ma altresì per la nota e dispendiosa passione del proprietario per le opere d’arte, i complementi d’arredo ricercatissimi, le rarità da accaparrarsi a tutti i costi, letteralmente. La sua casa di mode (anzi, il suo marchio) è ormai quotato in Borsa, il gioco si fa duro e occorre un po’ di riposo, prima di affrontare le sfilate autunno/inverno. Mentre D’Amico resta a casa e gioca a tennis, Gianni esce per comprare i giornali e un brunch, in una classica giornata di sole di un’estate in Florida.

Mentre scende gli scalini esterni della dimora, lo stilista viene colpito da due ( ci dicono) colpi di una Taurus 40 ( grosso calibro) e stramazza: a nulla varranno i tentativi di soccorrerlo, morirà in ospedale.

Lo sconcerto è planetario; il funerale nel duomo meneghino, il 22 luglio, così faraonico da risultare imbarazzante, per l’accorrere di star da tutto il mondo: da Elton John, affranto col futuro marito David Furnish intento al segno di croce, a Lady Diana, che lo consola, ignara che di lì a un mese e mezzo l’amico canterà, piegato dal dolore, alle sue stesse esequie “ Candle in the wind”. 

Intanto da Miami, sulle prime, giungono dichiarazioni di ogni genere, da parte della polizia. Alcune fanno riferimento a dei killer da cercarsi “lontano” e il popolo si scervella, peraltro distratto dai gossip estivi, anzi giusto giusto da Diana Spencer che, finita la cerimonia funebre, corre in villa e sullo yacht di Dodi, a esibirsi per la gioia dei fotografi.

Non passa molto, è il 23 luglio, prima che giunga il trionfale annuncio: assassino di Versace trovato, “cotto e mangiato”, ovvero suicida: Andrew Phillip Cunanan, prossimo ai ventotto anni, californiano di origini filippine e italiane ( pare che avesse per secondo cognome “Schillaci”), gigolò gay d’alto bordo, tossicodipendente e spacciatore.

Subito ascoltiamo una conferenza stampa, durante la quale viene ammesso che, in realtà, nessun testimone lo avrebbe riconosciuto, durante la fulminea azione delittuosa. Il custode ultrasettantenne di una house boat (casa galleggiante), insospettitosi per una porta del natante che appariva forzata, è entrato, ha sentito uno sparo, ed ha chiamato le forze dell’ordine: queste arrivano e trovano Andrew cadavere al piano rialzato, pistola nelle mani in grembo.

In questa sede non trattiamo il tema dei dubbi sollevati sull’affaire Versace/Cunanan da Chico Forti, oggetto di un nostro precedente articolo; ricordiamo solo che Forti girò un documentario al riguardo e, a suo parere, tale iniziativa gli attirò l’odio degli investigatori e una condanna, da innocente, per l’omicidio di un affarista, Dale Pike, ma un legame tra tutti questi eventi è stato adombrato e dovremo poi accennarne.

Come i detective siano giunti a determinare che il colpevole fosse quel giovane, non è dato sapere. Ci limitiamo alla nostra analisi e alle consuete dissonanze, rilevate dopo anni di letture e visione di filmati che scazzottano un poco tra loro.

Come già notammo nell’articolo su Chico Forti, esiste un episodio della serie “ A sei passi dal killer” , di pochi anni fa, che ci parla di Andrew. Costui è definito serial killer, perché vengono confermati alcuni feroci omicidi, condensati in pochi mesi prima di quel 15 luglio 1997, che egli avrebbe commesso ai danni di alcuni suoi ricchi clienti, un amico e un esercente che gli era d’impaccio, ma in uno stile, con una “ firma” del tutto diversi da quello che connotò l’azione contro Gianni. Mentre quasi tutti i delitti antecedenti vedevano le vittime inermi nell’ambito di giochi erotici o in una situazione di fiducia, davanti a Casa Casuarina il gigolò si sarebbe prodotto in un assalto degno di un killer professionista, peraltro a volto scoperto, così veloce e preciso da non rimanere impresso nella memoria di nessuno, in piena luce. Nel programma, si insinua che non esisterebbero collegamenti certi tra Gianni ed Andrew.

Invece nell’ufficialità si parla tuttora di brevi incontri in club omosex, toccate e fughe insomma. Viene detto che il ragazzo stazionava a Miami da alcuni giorni, aveva firmato check in e ricevute, senza preoccuparsi, apparentemente, di lasciare tracce del proprio passaggio: di talché il suo movente viene accostato a quello di Mark Chapman, quando questi volò dalle Hawaii a New York per far fuori John Lennon nel 1980: un misto di invidia, rancore, frustrazione, rivalsa, per Chapman più “ideologici”, per Cunanan, ormai fuori dai giri che contavano,  dettati da recriminazioni verso il celeberrimo italiano che, nel contesto gay, lo avrebbe usato e mollato.

Facciamo entrare in scena il compagno di Versace, Antonio D’amico, che, nel corso di rare interviste, confida, per cominciare, la grave depressione che lo colse e attanagliò per anni dopo quella perdita; nega con forza che Gianni possa aver conosciuto, sia pur brevemente, un ceffo come l’assassino; è scettico sulla verità formale, ma non ne avalla di alternative; lamenta il subitaneo disinteresse del clan Versace verso di lui (in particolare, si sussurra, dell’ostile Donatella); rivendica di aver rinunciato a ciò che per testamento gli sarebbe spettato, ovvero l’uso di alcune abitazioni di Gianni e un vitalizio, accontentandosi di una più modesta rendita mensile; si rammarica per la sua condizione non legalizzata, che non gli ha consentito di avere voce in capitolo, in una società ancora omofoba.

Tutto vero? Dal suo punto di vista, sarà certamente così. Noi ci limitiamo a ricordare che lo stilista esibiva con orgoglio le immagini che lo ritraevano con i fratelli e i nipoti, senza nascondere la sua predilezione per Allegra, figlia di Donatella e dell’ex marito Paul Beck, modello statunitense già prediletto da Gianni; che purtroppo le unioni di fatto rappresentano un ostacolo anche per le coppie eterosessuali che per qualche ragione non vogliono o non possono sposarsi, ma nulla avrebbe impedito a Gianni di intestargli beni o cespiti di investimenti: evidentemente, il deceduto teneva più alla continuità dell’azienda, trasmessa in buona parte alla sorellina che aveva studiato anch’ella moda a Firenze. I malumori tra parenti/serpenti sono abituali nelle famiglie, ordinaria amministrazione, conditi da malvage ritorsioni, sottrazioni di beni, liti e non di rado fatti di sangue.

Antonio non è tenero neppure con la serie “L’assassinio di Gianni Versace” di American Crime Story, protestando di non essersi mai comportato come si vede nella fiction ( dove è interpretato da Ricky Martin); lui non si è chinato a prendere l’amato in fin di vita tra le braccia, come nella Pietà di Michelangelo e le scene sono ridicole. Non tutti la pensano così. Per molti l’opera è magistrale, casomai soggetta a critiche stilistiche, e le sceneggiature godono del privilegio della licenza narrativa, da sempre.

Continua...