Tra i tanti articoli fuorvianti nell’ambito delle tecnologie di trasformazione delle biomasse organiche di scarto in biogas e upgrading dello stesso (impianti biometano), va segnalato un articolo pubblicato il 19-08-2019 nella testata giornalistica on-line Acrinrete

link: www.acrinrete.info/mobile_news.asp?id=11820                                

Trattandosi di un argomento tanto importante quanto poco conosciuto e soggetto a interpretazioni grossolane, ritengo doveroso, anche a tutela di chi impegna risorse, ricerca e tanto lavoro nell’ambito delle soluzioni alternative ai metodi tradizionali di smaltimento dei rifiuto organici (che rappresentano più del 40% del totale dei rifiuti urbani), operando rigorosamente in ottica di economia circolare e riciclo virtuoso, finalizzato al recupero produttivo senza emissioni inquinanti in ambiente, fornire elementi valutativi basati sulla concretezza dei fatti e dello stato attuale delle cose, compreso il complesso sistema delle tecnologie necessarie per ottenere le autorizzazioni alla progettazione e realizzazione dei sistemi di trattamento, che prevedono il rigoroso rispetto di norme ambientali e di sicurezza.

Nel merito specifico della situazione locale non entro perché non la conosco, ma le imprecisioni grossolane sono tante e possono creare tanta confusione in un ambito così importante come quello delle alternative produttive e non inquinanti al riciclo dei rifiuti organici, nel presente articolo cerchiamo di chiarire almeno alcune delle tante imprecisioni:

Ammesso che la citazione del biogas e del biometano sia dovuta a ingenua inconoscenza, va detto che si tratta di due elementi completamente differenti e che il secondo, che normativamente per essere immesso in rete deve avere al 98% le caratteristiche del CH4 (metano naturale da estrazione), è ottenibile dal biogas solo tramite upgrading (raffinazione) dello stesso e ciò che rimane da questo processo (circa il 40-45%) è quasi esclusivamente CO2,  che negli impianti di avanguardia viene interamente recuperata come materia prima molto richiesta per tanti usi e non brucia affatto (provate a dar fuoco ad una bibita gassata). Se negli impianti è presente la torcia di sicurezza si tratta di misura aggiuntiva prevista dalle normative, che in caso di perdita impedisce la fuoriuscita in ambiente fino alla riparazione dell'eventuale guasto (ricordiamoci che ogni fase produttiva, negli impianti di avanguardia, viene monitorata h 24), sarebbe assurdo e controproducente produrre biometano e bruciarlo.

 Come detto, penso sia doveroso in seguito chiarire una serie di affermazioni inesatte, che descrivono un impianto, che per essere autorizzato deve rispettare già in fase progettuale tante normative (emissioni odorigene, sistemi di sicurezza, normative ambientali ecc) e che coinvolge per questo investimenti economici molto rilevanti, come qualcosa di improvvisato, al di fuori di ogni regolamento e tecnologia. Così come è doveroso chiarire che non esiste nessun incentivo statale per promuovere l'utilizzo di biomasse colturali per la produzione del biogas, anzi è proprio il contrario, semmai esiste il sistema incentivante dei certificati di immissione in consumo (C.I.C.) per il biometano prodotto con le caratteristiche richieste dal Gestore dei Servizi Energetici, e ciò come incentivo alla produzione di biocarburanti (non di origine fossile da estrazione), in ottica di economia circolare del riciclo virtuoso che permetta una riduzione delle quantità di C02 immesse in atmosfera al di fuori del ciclo naturale della decomposizione, oltre alla riduzione degli inquinamenti derivati.  

Nell’articolo in questione vengono indicati miasmi in fuoriuscita dal biodigestore, ma il citante forse non sa cosa sia un biodigestore e lo paragona ad una grossa pentola a pressione piena di gas; in realtà all’interno di esso, il gas che si produce nel ciclo (dai 20 ai 30 gg), è presente solo in una parte dell’apparato e appena prodotto viene inviato alla fase di upgrading, non avrebbe senso farlo stazionare. Inoltre, se emettesse miasmi, oltre a contravvenire alle normative sulle emissioni odorigene, non sarebbe più a tenuta stagna: progettare e realizzare questi apparati richiede per normativa, oltre alle abilitazioni necessarie, l’utilizzo di determinati materiali e tecnologie, non è possibile improvvisare in questo ambito, ogni struttura prevede collaudi e controlli costanti. Anche il pretrattamento delle matrici, dalla fase di scarico fino al trattamento finale, devono essere effettuati in appositi capannoni depressurizzati e dotati di biofiltri. Per quanto riguarda il digestato, che normativamente viene definito ammendante agricolo (non compost), in un impianto autorizzato, deve essere trattato in appositi apparati e terminato il ciclo di maturazione, previo analisi, viene immesso in mercato solo se con caratteristiche di elevata qualità, adatte alle coltivazione biologiche, chi contravviene è punibile penalmente.  Le acque di risultanza non devono in alcun modo entrare in contatto con il terreno, ricordiamoci che inquinare le falde sottostanti è un reato penale grave. Negli impianti di avanguardia, queste, rientrano nel ciclo del biodigestore, con un notevole risparmio di risorsa idrica.

Termino questo doveroso chiarimento invitando a non espandere affermazioni superficiali e fuorvianti, perché il tema del riciclo virtuoso coinvolge tutti e non sarà possibile nascondere i nostri rifiuti per sempre;  così come è giusto porsi delle domande, non è sempre giusto darsi anche le risposte, a volte è meglio approfondire, specialmente quando si rendono pubblici dati e affermazioni.


[ufficio stampa sati]