di Guglielmo Ferraro.
A chi può giovare una comunità scientifica fortemente autoreferenziale che non accetta confronti, che non ammette dissensi e che attacca violentemente chiunque osi esprimere dubbi? “La scienza non è più affidabile perché in mano ad una casta chiusa e tutt’altro che indipendente”. Questo è ciò che ha coraggiosamente denunciato Randy Schekman, premio Nobel per la medicina nel 2013. È la triste realtà di un potere che si prefigge come suo principale traguardo il profitto.
Ai vertici di questo criticabile sistema d’affari dominano incontrastate le miliardarie multinazionali del farmaco. Condivisibile è l’opinione espressa al riguardo da Marcia Angell, direttrice per oltre vent’anni del New England Journal: “Noi tendiamo a dimenticare che le aziende farmaceutiche investono in business. La loro responsabilità è nei confronti dei loro azionisti.
E qual è il loro obiettivo? Il loro obiettivo è fare profitti e questo è esattamente quel che fanno. Questa è la loro priorità”. Un insostituibile strumento adoperato dall’establishment della medicina per autopromuovere le sue “verità” viene fornito dall’editoria specializzata. Soltanto le ricerche riportate da autorevoli riviste scientifiche acquistano rilevanza e credibilità. Ma chi ha il potere di decidere ciò che può essere pubblicato? Richard Smith, ex curatore del British Medical Journal e poi direttore generale di United Health Europe, ha sostenuto che “le riviste di medicina costituiscono un’estensione del braccio del marketing delle compagnie farmaceutiche”. Chi vuol capire capisca!
Pretendere, ad esempio, di stabilire categoricamente che l’alluminio presente nei vaccini sia del tutto innocuo, senza tener conto degli innumerevoli studi che ne hanno chiaramente evidenziato la neurotossicità non è scientificamente né moralmente corretto. Così come non è ammissibile che si dichiari assolutamente improponibile qualsiasi collegamento tra vaccini ed autismo, semplicemente perché una significativa mole di ricerche indipendenti non ci consente di farlo. Chi ha la facoltà di decidere dichiara perentoriamente che tutti i vaccini siano assolutamente sicuri ed efficaci, senza la benché minima incertezza. Ma la verità è che ogni vaccino può causare effetti collaterali, a volte anche gravi e con una frequenza assai maggiore di quanto si vorrebbe far credere.
Un’attenta analisi dei dati forniti dalla letteratura scientifica indica inconfutabilmente che il calo della mortalità dovuto alle malattie infettive fosse marcatamente iniziato diversi anni prima dell’introduzione delle immunizzazioni di massa. Ma questi dati vengono sistematicamente ignorati. E appare così strampalata l’opinione di chi considera che l’immaturità del sistema immunitario di bambini di due o tre mesi possa elevare il rischio di subire danni da vaccino? Che dire poi di quei medici che, sulla base della loro esperienza clinica, ritengono che i bambini non vaccinati godano di una migliore salute rispetto a quelli vaccinati? Vengono spesso accusati di fornire dati scientificamente non valutabili. Non esistono però ricerche che contraddicono le loro osservazioni.
Un altro esempio offerto da questa scienza malata, al servizio del profitto, è l’utilizzo indiscriminato delle statine, i farmaci per la cura dell’ipercolesterolemia. Le linee guida ufficiali, dettate dagli “esperti” al soldo delle industrie, tendono ad abbassare sempre di più la soglia di normalità del tasso di colesterolo presente nel sangue. Ciò ha avuto, come diretta e voluta conseguenza, una sempre maggiore diffusione di farmaci responsabili di gravi e non infrequenti effetti collaterali.
Le aziende farmaceutiche insistono nel dire che essi si presentano solo nel 2-3% dei pazienti, ma la dottoressa Beatrice Golomb, della University of California di San Diego, che ha condotto diversi studi sugli effetti collaterali delle statine, ha invece scoperto che il 98% dei pazienti che assume Lipitor (atorvastatina) e un terzo dei pazienti che assume Mevacor (lovastatina) soffrono di dolori muscolari. E secondo i risultati delle sue ricerche i pazienti che fanno uso di statine per due o più anni hanno una probabilità da 4 a 14 volte maggiore di contrarre polineuropatie rispetto a chi non le utilizza. È da notare, peraltro, che nelle persone che ricorrono ad alti dosaggi e per lunghi periodi i danni al sistema nervoso periferico possono risultare del tutto irreversibili. Tutte le statine possono provocare danni ai muscoli scheletrici e al muscolo cardiaco. L’evenienza più pericolosa è la rabdomiolisi, grave forma di lesione muscolare a cui consegue il rilascio nel torrente circolatorio di sostanze come acido urico, calcio, potassio e mioglobina, proteina nefrotossica, che può causare gravi e a volte letali insufficienze renali. I possibili danni a carico del muscolo cardiaco spiegano inoltre i numerosi casi di insufficienza cardiaca associabili all’uso delle statine.
Questi farmaci sono stati approvati nel 1987 e negli Usa, dal 1989 al 1997, come ha sostenuto il cardiologo americano Peter H. Langsjoen, sono raddoppiate le morti per insufficienza cardiaca. Si tratta solo di una semplice coincidenza? Numerosi studi sponsorizzati confermerebbero che la diminuzione della colesterolemia, ottenuta con le statine, riduce anche i rischi di infarto e di ictus, ma parecchie ricerche autonome, non finanziate dalle solite case farmaceutiche, comprovano invece che l’uso di questi farmaci non modifica affatto il rischio di contrarre malattie cardiovascolari. Questi studi vengono ovviamente spesso trascurati dalle più note riviste scientifiche e ciò basta a molti, purtroppo, per considerarli privi di fondamento. Ma i mezzi di informazione medica non sono depositari di verità assolute e costituiscono nelle mani di pochi potenti senza scrupoli un terribile strumento per la salvaguardia dei loro sporchi interessi, a discapito della collettività.
In un considerevole studio basato su un’ampia revisione scientifica, eseguito con l’ausilio di Pubmed, di Embase e del Cochrane database, e pubblicato nel 2013 dal Journal of Endocrine and Metabolic Diseases, Sherif Sultan e Niamh Hynes, del Galway University College Hospital, in Irlanda, hanno estesamente sottolineato l’inefficacia e la pericolosità delle statine, considerate la più grande frode medica mai perpetrata. “L’industria delle statine, con tutto il suo indotto, assomma a 20 miliardi di dollari all’anno. Stiamo osservando il dispiegarsi della peggiore tragedia medica di ogni tempo”.
Queste sono le considerazioni con le quali i due ricercatori irlandesi hanno perentoriamente condannato l’utilizzo di questi farmaci. È ancora diffusa l’opinione che i chemioterapici costituiscano l’arma più efficace disponibile contro i tumori, anche se valide e inattaccabili ricerche ne hanno chiaramente evidenziato i limiti e la pericolosità. Quel che è certo è che questi terribili veleni consentono a chi li produce la realizzazione di stratosferici fatturati, ma la logica del profitto non arretra neanche di fronte alla morte. Possiamo ritenere che esista, come ha affermato il dr. Ralh W. Moss, autore del libro denuncia “Questioning Chemotherapy”, in cui viene documentata l’inefficacia della chemioterapia in vari tumori, “una sorta di establishment del cancro, che controlla l’orientamento della prevenzione, della diagnosi e della terapia dei tumori”.
La logica del profitto non ha trascurato nessun settore della medicina, ma è nell’ambito della psichiatria che ha forse raggiunto la sua massima espressione. Sono 100 milioni, secondo alcune statistiche, le persone nel mondo che fanno uso di psicofarmaci e sarebbero oltre 3000 le morti determinate ogni mese da queste sostanze. Negli Usa in 10 anni sono raddoppiati i consumatori di antidepressivi. Ad affermarlo è stata una ricerca della Columbia University di New York e della University of Pennsylvania, pubblicata su Archives of General Psychiatry. I ricercatori hanno esaminato i dati dal 1996 al 2005 del Medical Expenditure Panel Surveys, che rivelavano un costante incremento del numero dei consumatori di antidepressivi, giunto sino alla soglia dei 30 milioni. E questa crescita non accenna a diminuire.
Il boom degli antidepressivi ha investito anche gli italiani. Più di un italiano su due, mediamente, acquista una confezione di antidepressivi in un anno e la diffusione di questi farmaci non ha risparmiato neanche i più giovani. Gli antidepressivi più diffusi attualmente sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). Questi farmaci dovrebbero curare i depressi attraverso la correzione di un alterato equilibrio serotoninergico. Secondo la teoria biologica della depressione la sua origine sarebbe infatti da ricollegarsi ad un deficit della serotonina, un neurotrasmettitore sintetizzato nel cervello e in altri tessuti a partire dall’amminoacido essenziale triptofano. Questa ipotesi convince però molto poco e risulta, se non altro, assai semplicistica.
Una decisiva dimostrazione dell’inutilità dei farmaci antidepressivi l’ha fornita Irving Kirsch, professore di Psicologia presso l’Harvard Medical School negli Stati Uniti e all’Università di Plymouth nel Regno Unito. Nel suo libro, disponibile anche in italiano, con il titolo “I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito. Dalle pillole della felicità alla cura integrata” (edizioni Tecniche Nuove), Kirsch riporta un’approfondita e ineccepibile metanalisi e chiarisce efficacemente come sia arrivato alla conclusione che i farmaci antidepressivi, se paragonati al placebo, risultano quasi del tutto inefficaci.
Numerosissimi sono gli effetti collaterali derivanti da questi farmaci. Particolarmente preoccupanti appaiono i legami tra suicidi, episodi di violenza ed antidepressivi. Molte stragi avvenute negli USA hanno avuto per protagonisti ragazzi che facevano uso di questi farmaci. La Citizen Commission Human Rights International, che da molti anni si batte per fare luce sugli effetti degli psicofarmaci, ha raccolto dati sulle assurde uccisioni compiute da giovani e giovanissimi che assumevano antidepressivi o che avevano appena smesso di prenderli e riferisce che tra il 2004 e il 2011 ci sono stati 11.000 report alla Food and Drug Administration (FDA) su violenze varie ricollegabili all’utilizzo di antidepressivi, tra cui 300 omicidi, 3000 casi di mania e più di 7000 di aggressione (e la stessa FDA ha ammesso che le vengono riferiti solo l’1-10% dei casi).
Negli ultimi anni i warnings sulle confezioni di psicofarmaci sono aumentati sensibilmente. Le prime etichette nere, o black-box, riguardo alla possibile insorgenza dell’ideazione suicidaria, sono apparse sui più comuni antidepressivi già nel marzo 2004 (Prozac e Zoloft). Nel febbraio 2005 la FDA ha poi esteso gli avvertimenti a tutti gli antidepressivi, dopo che ricerche monitorate con placebo hanno rilevato un’incidenza raddoppiata del rischio di suicidio.
Si avverte un urgente bisogno di aria pura (e non solo nella medicina). Per il bene della scienza, ma soprattutto per il bene di noi tutti. Non so se potremo mai assistere ad un capovolgimento di questa terribile realtà. Ma è comunque nostro dovere batterci sempre, con tutte le nostre forze, con le unghie e con i denti, affinché un giorno le cose possano cambiare. Non dovremmo mai dimenticare che, come disse una volta qualcuno, “il mondo è quel disastro che vedete non tanto per i guai combinati dai malfattori ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare”.