Il governo Usa non sembra realmente intenzionato a porre fine all'ormai inveterata abitudine delle multinazionali americane di sottrarsi all'imposizione fiscale, sfruttando i paradisi fiscali oppure facendo accordi con paesi, anche europei, come Irlanda, Olanda e Lussemburgo, per una tassazione che potremmo definire privilegiata.

Anzi si direbbe che faccia l'esatto contrario, minacciando ritorsioni contro chi, come la Commissione Europea, intende combattere queste pratiche che, seppur legali, costituiscono un danno per la collettività.

A testimoniarlo un insolito documento del Dipartimento del Tesoro americano, in pratica l'equivalente del ministero delle Finanze, pubblicato la settimana scorsa, dal titolo "The European Commission's recent state aid investigation of transfer pricing rulings".

Per "transfer pricing rulings" si intendono quelle normative che riguardano il trasferimento di valore (beni, servizi) fra società di uno stesso gruppo poste in paesi diversi, un meccanismo che consente di spostare i profitti dove il fisco è più "benevolo".

Nel documento l'amministrazione Usa critica l'operato dell'Unione Europea che cerca di arginare questo fenomeno di elusione fiscale, contro la quale si sono espressi gli stessi Stati Uniti nell'ambito del G20 tenutosi alla fine del 2015 in Turchia, che ha approvato all'unanimità il cosiddetto progetto BEPS

Margrethe Vestager (nella foto con Jack Lew, segretario del Tesoro americano), capo dell'anti-trust europea, ha iniziato già nel 2014 un'attività di indagine per verificare che gli accordi per un'imposizione fiscale agevolata che Irlanda, Olanda e Lussemburgo hanno stretto con alcune multinazionali non si configurassero come aiuti di stato e come tali risultassero, quindi, illegali.

Nel caso di Starbucks con l'Olanda e della Fiat, anch'essa implicata, con il Lussemburgo, la Commissione ha già concluso che in effetti si tratta di aiuti di stato. Una decisione finale non è stata ancora presa per la Apple con l'Irlanda e per Amazon con il Lussemburgo, ma l'orientamento prevalente all'interno della Commissione è che anche in questi casi si possa parlare di aiuti di stato.

Le conseguenze potrebbero essere indubbiamente pesanti. La Verstager ha già chiesto 30 milioni di tasse arretrate a Fiat Chrysler e 20 milioni a Starbucks. Entrambe le società hanno fatto ricorso alla Corte Europea.

Intanto, JP Morgan ha calcolato che se la Commissione imponesse ad Apple di pagare le imposte eluse fino ad oggi grazie all'accordo con il governo irlandese, dalle casse della società di Cupertino dovrebbero uscire 19 miliardi di dollari.

Con una campagna elettorale per le presidenziali in corso, in cui si spendono milioni di dollari per la promozione di un candidato, il contributo delle multinazionali è imprescindibile. Questo vale anche per Hillary Clinton per la quale Obama ha espresso il suo appoggio. Ma, naturalmente, nell'ottica del do ut des, le multinazionali hanno preteso qualcosa in cambio.

Ed ecco come si giustifica il documento della settimana scorsa, che da tutti i commentatori è stato definito quantomeno inusuale, soprattutto per i toni di esplicita minaccia.

Il ministero delle Finanze Usa accusa la Commissione Europea di operare al di là di quelle che sono le sue specifiche competenze, che dovrebbero limitarsi all'applicazione delle norme europee sulla concorrenza e gli aiuti di stato, e di essersi trasformata in un'autorità fiscale sovranazionale che si immischia indebitamente nelle decisioni dei singoli stati membri in merito ai transfer price.

Nel documento si dichiara esplicitamente che

"... se la Commissione continua la sua attività attuale, il Dipartimento del Tesoro Usa è pronto a considerare eventuali risposte. La cosa migliore, quella che rappresenterebbe un vantaggio per entrambe le parti, sarebbe il ritorno a quella pratica di cooperazione fiscale internazionale, che per lungo tempo ha promosso investimenti trans-nazionali fra gli Stati Uniti e gli stati membri dell'Unione Europea."

Il che tradotto in parole più semplici significa rimettiamo le cose com'erano prima, altrimenti potete scordarvi gli investimenti americani in Europa.

La cosa piuttosto ridicola sono le argomentazioni addotte dal Dipartimento del Tesoro a giustificazione del suo intervento.

Prima di analizzarle, è opportuno ricordare che, in base a quanto riferisce la ONG Citizens for Tax Justice, alla fine del 2015, 303 delle società elencate nelle 500 più grosse dalla rivista Fortune hanno totalizzato profitti all'estero per complessivi 2.400 miliardi di dollari.

Qualora queste società decidessero di rimpatriare questi profitti, sarebbero costrette a pagare al fisco statunitense la differenza fra quella che è la tassa sul reddito d'impresa prevista dall'ordinamento fiscale americano, cioè il 35%, e quanto già pagato nel paese estero.

Un'idea su quale sarebbe l'ammontare complessivo ce la possiamo fare grazie al fatto che le società americane sono tenute a dichiarare l'entità di questo importo. Tuttavia, approfittando di una scappatoia nella normativa, non tutte lo fanno.

Per le 55 che, invece, lo hanno dichiarato, si ha un totale di profitti conseguiti all'estero di oltre 56.000 miliardi di dollari, per i quali, in caso di rimpatrio, dovrebbero essere versati all'IRS, il fisco americano, 17.000 miliardi, pari al 31% dell'imponibile.

Questo significa che i guadagni di queste società sono stati tassati all'estero in media per un mero 4%, la differenza appunto fra 35 e 31.

Ora quello che il Dipartimento del Tesoro lamenta nei confronti della Commissione Europea è il fatto che, se le società americane fossero costrette al pagamento di tasse arretrate in Europa, queste sarebbero detratte dall'importo dovuto in caso di rimpatrio, con una perdita non indifferente per le casse del fisco statunitense.

L'assurdità di questa argomentazione è piuttosto lampante. Innanzitutto, perché è alquanto improbabile che, stando così le cose, queste società decidano di rimpatriare i loro profitti, considerando le cifre che dovrebbero pagare. In secondo luogo, l'operato della Commissione Europea, così contrastato dal Tesoro americano, farebbe sì che queste multinazionali, nell'impossibilità di ottenere condizioni di favore da parte dei membri dell'Unione, finiscano finalmente per pagare imposte più alte. Questo renderebbe decisamente meno conveniente accumulare guadagni all'estero, con conseguente beneficio per le casse pubbliche americane, già nel medio periodo.

Sicuramente, questo è impossibile che sia sfuggito a chi ha redatto il documento. Ma, a fronte di una necessità più impellente, come quella di evitare a Apple & co. il pagamento di colossali arretrati, val bene la pena di fare la figura degli incompetenti. Del resto, la campagna di Hillary è un pozzo senza fondo e se vengono a mancare i finanziamenti ...