Poema che ho scritto per tutti i morti della guerra in Ucraina, ma in fondo di tutte le guerre, dove va perduto qualcosa dei vivi e tutto dei morti.

Che cosa volete che mi importi,
Delle elucubrazioni strategiche,
Delle ossessive mappe sinottiche,
Io cerco le mappe dei morti,

Non nel senso che intendete voi,
Parlo delle mappe senza un come,
Che risalgono alle radici di un nome,
Un nome qualunque, non quello di eroi.

Ecco! una di quelle che ho trovato,
Indossava scarpe da tennis bianche,
Un jeans chiaro del tipo slavato,
Era chiusa in un sacco fino alle anche,

Sì!  era semichiusa in quel sacco nero,
Più nero di un buco in fondo a un mistero,
Ho capito che era fanciulla da una mano che sporgeva,
Che benché da tempo in quel luogo giaceva,
Conservava intatta la sfumata chiarezza,
Di quella che fu vivida giovinezza.

Non sono solo le strade dell'Ucraina,
Ad essere andate distrutte,
Ma mappe viventi non scritte,
Cancellate da mano assassina,

Erano archivi, di molte vite i segreti,
Ora per sempre sotto terra rinchiusi,
Che importano quindi bandiere e amuleti,
Se i destini son con la morte collusi.

Queste sono le mappe che vado cercando,
La cui mancanza mi toglie il sonno,
Perché solo le ogive stanno cantando,
Dove tutto vince fuorché il senno,

Lontano da misteriosi giardini d'amore,
Dove per ogni persona ci sarebbe un fiore,
E per ogni fiore un ape bottinatrice,
Che conosce i codici di ogni matrice.

 Sì, cerco dissennatamente quei morti,
Perché solo così posso posso orientarmi,
Nell'inferno delle  deliranti cattive sorti,
Che giocano a dadi con  tutti gli inermi.

Certo, lungo la strada non dimentico i vivi,
Dispersi nel mare di steppa come esuli argivi,
Essi sono la chiave per un giorno ricostruire,
Il vissuto di coloro che si vuol far sparire.

Quanto avrei voluto, se solo potuto,
Seguire le arterie delle mappe vitali,
Per navigare tra i rivoli interstiziali,
Di cellule di un mondo  ormai perduto,

E veleggiare sospinto dal respiro ceduo,
Fino a lidi oscuri di mari morti,
Dove troneggia il tempio dei ricordi,
Di tutto ciò che chiamiamo individuo.

Lì, in un chiostro giace l'albero della vita,
Da cui nasce ogni uomo e diritto,
E tutto ciò che non può essere scritto,
Dell'esistenza distrutta e poi amata.

Così la mia nave argiva risale la Colchide,
Fino agli istmi di quella terra di sangue,
Dove ogni umana misericordia langue,
Darò così ad ogni vita la sua lapide,
Certo che un giorno, un giorno felice,
 A quelle mappe viventi sarà ridata la luce.