L'articolo seguente è stato scritto da Michael Driessen,  professore di scienze politiche e relazioni internazionali presso la John Cabot University di Roma,dove è direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali e co-direttore della Interfaith Initiative, ed è stato pubblicato su pubblicata da Settimananews:

"Sto osservando da un mese Shangai. Perché sta morendo così tanta gente a New York e non a Shangai, una megalopoli in cui vivono accalcati 25 milioni di abitanti – solo a cinque ore di treno da Wuhan? Amartya Sen ha teorizzato, in una sintesi divenuta famosa, che la democrazia elimina il problema della fame e di altre catastrofi ad ampia portata grazie alla sua combinazione di libertà, prontezza nel far fronte agli eventi e flessibilità istituzionale. Il punto di partenza di Sen era precisamente il fallimento della Cina di Mao di fronte alla Grande carestia. E una pandemia invece? Cosa significa Shangai per il futuro della politica internazionale e per l’ordine liberale del mondo? In merito alcune brevi considerazioni. Uno dei tratti politici di maggior rilievo sul piano della risposta globale al Coronavirus è stata la mancanza di coordinazione internazionale. Da un lato, si tratta di un aspetto che può in parte sorprendere. Per anni studiosi in ambito delle relazioni internazionali, da David Held a Bob Keohane, hanno sostenuto che la natura  specificamente transnazionale delle grandi questioni internazionali (come  migrazioni,  riscaldamento globale, terrorismo e conflitti cibernetici) dovrebbe incentivare la cooperazione globale su una scala molto più ampia di quanto non fosse tipico nei sistemi internazionali precedenti. Sotto alcuni punti di vista, il Coronavirus sembrerebbe essere esattamente il tipo di problema che questi teorici delle relazioni internazionali avevano in mente: una forma di violenza senza confini né basi statali, che caratterizza la nostra epoca di globalizzazione e ne convoca le possibilità globali. Nel suo saggio del 2006, Reframing Global Governance: Apocalypse Soon or Reform, Held fa della diffusione globale di una malattia un esempio cruciale del nuovo tipo di problemi internazionali che richiedono forme inedite di cooperazione globale. Eppure, tali forme di cooperazione globale non si sono manifestate, per una serie di ragioni, ognuna delle quali  merita attenzione. Innanzitutto, come evidente da prima del 2016, è chiaro che il potere e l’attenzione degli Stati Uniti, se non propriamente in declino, sono tuttavia rivolti al proprio interno, prendendo poi,  soprattutto con Trump, una forte svolta isolazionista. In nessun modo Trump ha tentato di assumere una leadership globale nella gestione della crisi provocata dal Coronavirus. Poco successo hanno avuto i tentativi di delineare una leadership globale da parte di altri. La voce dell’ONU e dell’Unione Europea è stata sommessa; e i piani dei singoli stati in Europa e altrove non hanno mai raggiunto il livello di una decisa convocazione all’azione internazionale. In altre parole, il Coronavirus sembra aver confermato il fragile stato di salute dell’ordine globale liberale, da un lato, e i limiti della flessibilità creativa del liberalismo nel fare da volano per un’azione globale, dall’altro. Eppure non vi è nulla di fatalmente inevitabile in questa situazione. È possibile immaginare uno scenario diverso: uno in cui un’America più globalista, insieme a un G7 più determinato, a un’Unione Europea più solidale, a una ONU più incisiva e a una Cina più cooperativa, avrebbero mobilizzato collettivamente le loro capacità politiche verso una risposta vincente per tutti davanti alla pandemia. Una risposta che avrebbe potuto coordinare meglio la distribuzione delle forniture e aiuti d’emergenza, e la diffusione di linee guida sanitarie così da rafforzare e riaffermare il sistema internazionale liberale anziché indebolirlo. Perché non abbiamo un video youtube di Trump, Xi e Guterres che indossano insieme le mascherine e si fanno paladini del futuro globale? Perché non una videoconferenza di Macron, Merkel e Conte ai popoli d’Europa con la IX di Beethoven in sottofondo? Da un certo punto di vista, la situazione attuale potrebbe essere attribuita a una scarsa immaginazione morale internazionale e non solo alle debolezze strutturali o istituzionali dell’ordine globale liberale. D’altro lato, la natura stessa della crisi ha  indebolito questa possibilità e ha messo in risalto la centralità delle capacità di risposta  del singolo stato, alimentando così, invece di metterle a freno, le dinamiche di sovranità nazionale. La minaccia del Coronavirus va affrontata sul territorio e per questo governanti locali, sia a livello regionale sia a quello statale (come Cuomo e Zaia), e nazionalisti come Xi, emergono come agenti  principali nel corso della crisi – non diplomatici internazionali, politici e ministri degli esteri. Mentre il virus si fa beffa dei confini statali, sono proprio i poteri statali e le forme locali di governo a riemergere come protagonisti delle scelte, dalla coordinazione di team sanitari d’emergenza all’applicazione delle misure di distanziamento sociale. Questo marca una differenza importante rispetto alle risposte a situazioni di crisi come il terrorismo internazionale o il riscaldamento globale, che avevano suscitato un coordinamento internazionale. Tutto questo getta benzina sul fuoco dell’ondata di autoritarismo che sta attraversando oggi il mondo, con le sue accuse di declino della democrazia liberale – soprattutto quando quest’ultima viene valutata non per il suo valore intrinseco ma in termini meramente tecnici, cioè nella sua capacità di innovare e di trovare soluzioni efficaci a nuovi problemi, dalla carestia alla pandemia. E qui torniamo a New York e Shangai. Anche se la Cina mente sui suoi numeri – e a seconda del grado con cui lo fa –, il suo successo a oggi nel fare ciò è la prova evidente del potere di cui i nuovi regimi autoritari hanno saputo impadronirsi in un mondo caratterizzato da comunicazione aperta e economia liberalizzata. Questo non è l’autoritarismo chiuso di Mao e potrebbe risultare più attraente e durevole di altri modelli, soprattutto in assenza di una contro-narrazione convincente e di una risposta adeguata. Questo vale non solo per Xi, ma anche per altri autoritari liberali e democratici illiberali di ogni genere – come Erdogan, Putin, Orban e il resto della compagnia. In questa prospettiva, il destino di Shangai e di New York potrebbe essere ricordato come una sconfitta storica. Quale potrebbe essere il ruolo della Chiesa in questo momento di riassestamento geopolitico? La dinamica abbozzata sopra, che intercetta anche la recente intensificazione globale della contrapposizione fra tendenze sovraniste e cosmopolite, verosimilmente avrà ricadute simili  sul cattolicesimo politico. Uno degli sviluppi più importanti nel posizionamento politico cattolico degli ultimi cinque anni, sia in Europa sia negli Stati Uniti, è stata la mobilitazione di forze politiche e religiose a supporto di un’idea forte di nazionalismo cristiano. Questo nuovo movimento sovranista cattolico ha creato una nuova alleanza tra politici e agitatori come Orban, Bannon e Salvini e intellettuali conservatori come Dreher, Reno e De Mattei in un modo che non dovrebbe essere preso alla leggera. La rivista First Things, attualmente diretta da Reno, ha giocato un ruolo centrale nel teorizzare una comprensione religiosa più stretta ed esplicita dello stato-nazione, difeso come il miglior baluardo della libertà religiosa contro forme aggressive di umanesimo laico e la sua visione globalista. Da qui deriva il plauso della destra cattolica per Orban e la sua attrazione verso Salvini e il Front National. Sembra essere chiaro che questo movimento vede i suoi istinti politici confermati dalla crisi attuale, come suggerisce larvatamente un lungo articolo pubblicato su First Things questo mese, in cui si elogia la politica di Salvini nell’Italia del Coronavirus. Un movimento che è in frizione col papato di Francesco, ma è anche in contrasto con la dinamica internazionalista della modernità cattolica che era stata fatta propria dalla Chiesa dopo le due guerre mondiali. Se la Chiesa non vuole arretrare rispetto alla sua visione della modernità  e, allo stesso tempo, vuole far fronte in maniera efficace al nuovo autoritarianismo e isolazionismo geopolitico, allora essa deve mettere mano a una visione ben più solida e teologicamente fondata di internazionalismo cattolico. Una visione che va oltre al sostegno alle dichiarazioni dell’ONU o alle formule oramai esauste dell’internazionalismo liberale attualmente in circolo. Piuttosto si tratta, a mio avviso, di rendere più solido il profilo integrale della sua visione di sviluppo umano e politico, portando in maniera decisa la lettura ecclesiale della misericordia e della sofferenza nel dibattito pubblico sulla libertà, la dignità umana e la cooperazione internazionale che è sorto in maniera evidente nel corso di questa pandemia".