Esteri

Il Regno Unito dice sì all’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti.

Intervista a Vincenzo Musacchio sui presupposti, sui contenuti e sulle conseguenze di questa estradizione.

Professore ci può spiegare esattamente quali e quanti sono realmente i capi d’imputazione contestati dalla giustizia penale americana ad Assange?

All’iniziale accusa di aver violato la Computer Fraud and Abuse Act (CFAA), la prima legge contro gli hacker e le violazioni informatiche approvata dal Congresso degli Stati Uniti risalente al lontano 1986 se ne sono aggiunte altre diciassette nelle quali è contestata la diffusione di documenti statunitensi coperti da segreto di Stato tramite WikiLeaks e la ripetuta violazione dello Espionage Act, la più importante legge americana contro gli atti di spionaggio. In conformità a queste ultime contestazioni, Assange rischia di rimanere in carcere per decine di anni e non per pochi anni come qualcuno paventa.

Cosa ne pensa lei della decisione assunta dal Governo inglese in merito?

Non entro nel merito del provvedimento giurisdizionale poiché non ne conosco i contenuti. Estradare Assange ed esporlo ad accuse di spionaggio però significa essere sottoposto a una pena fino a dieci anni di carcere (art. 793 USC). Questo però è solo uno dei diciassette capi d’imputazione contestati. Sommando le pene prevista dagli altri reati contestati, il giornalista australiano rischia, di fatto, una reclusione che si trasformerebbe, di fatto, in un ergastolo. Le rassicurazioni fornite dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti sul trattamento di Assange con pene più blande in realtà, a detta proprio delle autorità americane, potrebbero essere revocate in ogni momento. In base a un simile dubbio il Regno Unito avrebbe potuto non disporre l’estradizione di una persona in un luogo in cui la sua vita o la sua salute sarebbe in pericolo. La decisione assunta inevitabilmente diventa anche una scelta di natura politica.

Questa scelta politica, come l’ha definita poc’anzi, potrà avere ripercussioni sulla libertà di stampa?

A mio giudizio sì. Mi annovero tra chi ritiene Assange un giornalista che ha fatto fin troppo bene il suo mestiere diffondendo notizie di pubblico interesse. Penso sia questa la vera missione di un giornalista ed è una pietra angolare della libertà di stampa negli Stati democratici. Nel 2016, grazie a lui abbiamo appreso che l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) ha intercettato i telefoni della Cancelliera tedesca Angela Merkel e l’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, rubato le conversazioni telematiche della diplomazia italiana per conoscere quanto detto dall’ex premier Silvio Berlusconi con il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu su Barack Obama, ha spiato le comunicazioni dei ministri dell’Unione Europea e del Giappone per apprendere in dettaglio i loro accordi per evitare “l’ingerenza degli Stati Uniti” nelle loro relazioni internazionali, tutto con uno scopo: accumulare dati per utilizzarli a vantaggio dei loro interessi come potere geopolitico in tutto il mondo. Credo che questo fosse un interesse pubblico e non privato. Si crea oggi, di fatto, un pericoloso precedente che potrà indurre i giornalisti di ogni parte del mondo a guardarsi bene le spalle dal diffondere notizie non gradite alle superpotenze mondiali.

Secondo lei cosa è stata realmente Wikileaks?

È nei fatti una raccolta di documenti, segreti e non, attraverso i quali si svelano per la prima volta ai cittadini comuni verità scomode tramite la pubblicazione di materiale riservato protetto da segreto. Per essere il più chiaro possibile è come se noi oggi avessimo i documenti che chiarissero senza se e senza ma la strage di Ustica. Wikileaks ha iniziato a essere conosciuta in tutto il mondo quando ha dimostrato le atrocità e le torture commesse a Guantánamo, in sistematica violazione della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Verità, ma scomode al potere. In Italia ad esempio ci ha fatto conoscere le relazioni tra servizi segreti italiani e il clan dei Casalesi durante la crisi dei rifiuti in Campania. Questo e tanto altro ancora. Un modo di fare giornalismo criticabile, ma alla fine vero e trasparente. A me non sono mai piaciute le pressioni sulla stampa per evitare inchieste scomode. A me piace il giornalismo di Pippo Fava inteso da lui stesso come “cane da guardia” della democrazia, al servizio dei lettori, ma soprattutto dei cittadini. Julian Assange non è altro che un Pippo Fava moderno e abile all’uso delle nuove tecnologie informatiche.

Terminiamo con un messaggio di speranza, il giornalismo libero e indipendente ha un futuro? 

Se gli Stati Uniti rinchiuderanno per sempre in carcere Julian Assange, il giornalismo, la libertà di stampa e la stessa essenza delle democrazie contemporanee moriranno con lui. Un vero giornalismo deve avere la forza e la libertà di poter rivelare ai cittadini gli abusi, i crimini di guerra e le torture, senza temere di finire in galera o di pagare sanzioni di natura economica impossibili da sostenere. Senza questo giornalismo libero, la nostra democrazia si lascerà morire in un’agonia continua. Il messaggio di speranza? Augurarsi che Biden che si proclama grande difensore della libertà di stampa conceda la grazia a Julian Assange prima che l’estradizione diventi esecutiva. Sia chiaro, tuttavia, che c’è ancora la possibilità di presentare ricorso contro il provvedimento di estradizione.

Vincenzo Musacchio, giurista, criminologo forense, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. 

Autore SCUOLA DI LEGALITA DON PEPPE DIANA
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