di Michele Serra.  Il mondo sta cambiando con una velocità imprevista, la storia galoppa e non concede requie nemmeno ai più disattenti e ai più pigri. Il disorientamento, e anche un livello non ordinario di paura, sono stati d’animo diffusi: ognuno di noi può percepirli nelle conversazioni quotidiane. Non serve un politologo o un filosofo, basta un amico al bar per sapere che si guarda al presente con sconcerto, e al futuro con apprensione.Esiste ancora il concetto politico-strategico di “Occidente” nel quale sono cresciute le ultime generazioni di – appunto – occidentali? Che fine farà l’Europa, che oggi ci appare il classico vaso di coccio tra due vasi di ferro, per giunta ricolmi di bombe atomiche? Sopravviverà la way of life europea a questa stretta, che mette in discussione ciò che banalmente chiamiamo democrazia, ovvero separazione dei poteri, diritti e doveri uguali per tutti, libertà religiosa e laicità dello Stato, pari dignità e pari serenità per chi è al governo e chi si oppone?E se le autocrazie parlano semplice e parlano chiaro (e parlano falso a loro piacimento, grazie alla costante contraffazione tecnologica della realtà), quale linguaggio dovrà adottare l’Europa perché la sua voce non solo sia udibile, ma anche forte, convincente, seducente almeno quanto la voce dei suoi nemici?Mi è capitato di rispondere a queste domande nel modo più istintivo. Forse, anche, nel modo più “sentimentale” – ma le emozioni esistono, e a farne senza poi si vive male. In un’Amaca di pochi giorni fa, intitolata “Dite qualcosa di europeo”, e nella mia newsletter sul Post, mi sono domandato perché non si organizza una grande manifestazione di cittadini per l’Europa, la sua unità e la sua libertà. Con zero bandiere di partito, solo bandiere europee. Qualcosa che dica, con la sintesi a volte implacabile degli slogan: “qui o si fa l’Europa o si muore”. Nella sua configurazione ideale, lo stesso giorno alla stessa ora in tutte le capitali europee. Nella sua proiezione più domestica e abbordabile, a Roma e/o Milano, sperando in un contagio continentale.In ambedue i casi la quantità di mail e di messaggi traducibili con “io ci sto, io ci sarò, ditemi solo dove e quando” è stata semplicemente impressionante. Non mi era mai capitato niente del genere in decenni di scrittura pubblica. È come se mi fossi affacciato dalle due finestrelle di cui dispongo per vedere se giù in strada c’era qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere, e avessi trovato una piazza già piena. Non convocata, non organizzata, ma con una volontà di esserci che non è nemmeno un desiderio: è proprio una necessità. E pure essendo molto circoscritta – come è chiaro a me per primo – la mia platea mediatica, mi sono detto che forse è il caso di insistere. Di provarci. Anche perché le omissioni, in una fase così grave e convulsa della storia, sono imperdonabili.Io non ho idea di come si organizzi una manifestazione. Non è il mio mestiere. Non ho neanche, a differenza delle Sardine, cultura e destrezza social quante ne servono per rendere veloce e pervasiva la convocazione di un evento. Non so nemmeno dirvi a che cosa serva esattamente, in questo nuovo evo, una manifestazione di persone in carne e ossa: se sia un rito arcaico e pedestre di fronte al dilagare fulminante delle adunate algoritmiche; se sia un moto generoso ma destinato poi a disperdersi nelle ovvie difficoltà politiche (unire l’Europa ma come? Ma quando? E scavalcando per primo quale dei cento ostacoli senza poi inciampare nel secondo?).Ma penso che una manifestazione di sole bandiere europee, che abbia come unico obiettivo (non importa quanto alla portata: conta la visione, conta il valore) la libertà e l’unità dei popoli europei, avrebbe un significato profondo e rasserenante per chi la fa, e si sentirebbe meno solo e meno impotente di fronte agli eventi. E sarebbe un segnale non trascurabile, forse addirittura un segnale importante, per chi poi maneggia le agende politiche; e non potrebbe ignorare che in campo c’è anche un’identità europea “dal basso”, un progetto politico innovativo e rivoluzionario che non si rivolge al passato, ma parla del domani. Parla dei figli e dei nipoti.Mi rivolgo dunque a chiunque abbia idea di come fare, sia l’ultimo degli elettori o il primo dei parlamentari, la più nota delle figure pubbliche o il più anonimo dei cittadini. Associazioni, sindacati, partiti, purché disposti poi a scomparire, uno per uno, nel blu monocromo della piazza europeista. Il mio sassolino nello stagno l’ho lanciato, speriamo che piovano pietre.  (Fonte: www.repubblica.it)

Caro Michele Serra, abbiamo letto il tuo appello. Ma noi non ci saremo.

E non ci saremo non perché non crediamo nella necessità di un’Europa forte e coesa, ma perché non possiamo accettare un’Europa che si allontana sempre di più dai suoi valori fondanti.

Non possiamo accettare un’Europa che aumenta le spese militari a scapito di pace, diritti e democrazia, attuando le sue politiche ‘lacrime e sangue’ sempre a spese dei soliti noti. Noi crediamo in un’Europa nata per garantire la pace e il benessere di tutti i cittadini europei e non per alimentare la corsa agli armamenti. Oggi si sottraggono risorse a sanità, cultura, ambiente e welfare per investire nella difesa, nonostante l’Unione Europea già spenda in armamenti più della Russia. Non possiamo scendere in piazza per un’Unione Europea militarizzata che tradisce i suoi valori fondanti, che lascia sul fondo del baratro i più deboli e che spinge sempre più in alto i forti e i ricchi. Continueremo a lottare per un’Europa della pace e dei diritti, dell’equità fiscale, retributiva e sociale.

Non possiamo tacere di fronte ad un sistema che alimenta una spirale di militarizzazione mentre chi è già fragile soccombe sotto il peso di politiche di austerità. In un momento storico in cui la crisi climatica, la povertà e le disuguaglianze sociali richiedono risposte urgenti e coraggiose, l’Unione Europea sembra aver scelto di investire sempre di più in conflitti e armi. Con l’aumento delle spese militari, si sottraggono risorse a chi ne ha davvero bisogno, lasciando al contempo il destino dei più deboli sempre più in mano a politiche che favoriscono i forti e i ricchi.

Vogliamo un’Europa che difenda la pace e promuova i diritti umani, che garantisca il benessere dei suoi cittadini e non la corsa agli armamenti. Un’Europa che investa in politiche sociali, sanitarie, ambientali ed educative, non in una logica di guerra e di sopraffazione. La nostra Europa è quella che ha costruito la pace dopo le devastazioni delle due guerre mondiali, un’Europa che ha messo al centro i diritti, la giustizia sociale e la solidarietà tra i popoli. Non possiamo e non vogliamo essere complici di un cambiamento di rotta che sta minando questi stessi valori.

Non scenderemo in piazza per celebrare un’Unione Europea militarizzata, pronta ad affrontare le sfide globali con l’uso della forza, mentre lascia sul fondo i più vulnerabili. Non possiamo accettare che la nostra Europa diventi il luogo in cui i poveri e i deboli continuano a pagare il prezzo delle scelte politiche, mentre i forti si arricchiscono e si rinforzano ulteriormente.

Continueremo la nostra lotta, con determinazione, per un’Europa che torni ad essere quella dei diritti, della pace, della giustizia sociale e dell’equità. Un’Europa che mette al primo posto l’umanità e il benessere di tutti i suoi cittadini. Non quella che investe in riarmo e militarizzazione a spese dei più deboli. Noi non ci saremo, ma la nostra lotta non si ferma. E continueremo a lottare per un’Europa diversa, che rispetti davvero i suoi principi fondanti.

Ma questa Europa del riarmo non ci piace, non ci rappresenta e non la vogliamo.