Cambiare le regole del gioco mentre è in corso non è solo un atto scorretto, ma una vera e propria ingiustizia, particolarmente quando a farlo è lo Stato italiano. Con un colpo di spugna, sono stati cancellati i diritti acquisiti da milioni di lavoratori, minando alla radice la fiducia che legava i cittadini alle istituzioni.

Per decenni, i lavoratori italiani hanno intrapreso il proprio percorso professionale con la certezza di poter andare in pensione a 65 anni, un traguardo che rappresentava una promessa di stabilità economica nella vecchiaia. Il sistema retributivo garantiva un assegno pensionistico che, seppur con qualche variazione, rifletteva l’importo delle ultime buste paga, offrendo sicurezza alle persone che avevano dedicato la propria vita al lavoro.

Tuttavia, tutto è cambiato con la riforma Dini negli anni ’90 e, in maniera ancora più drastica, con la legge Fornero nel 2011. Con queste modifiche, l’età pensionabile è stata alzata oltre i 67 anni e, contestualmente, è stato introdotto il sistema contributivo, che ha trasformato la pensione da una garanzia sociale a una mera somma basata sui contributi versati. I risultati sono devastanti:

chi andrà in pensione nei prossimi anni, oltre a farlo in condizioni fisiche compromesse a causa di un’età troppo avanzata, si troverà con una pensione che non raggiungerà appena la metà del salario percepito durante la sua carriera, con inevitabili ripercussioni sul suo tenore di vita.

La transizione dal sistema retributivo a quello contributivo ha di fatto cancellato ogni aspettativa di un pensionamento dignitoso per chi ha iniziato a lavorare con il patto implicito di ricevere un adeguato supporto economico alla fine della propria carriera. Oggi, milioni di italiani si trovano a dover rivedere non solo i propri piani di vita, ma anche la visione stessa della vecchiaia, ridimensionando fortemente le proprie aspettative.

Ad aggravare questa situazione, c’è l’assenza di una reazione significativa da parte dei sindacati e della politica, che per contro hanno avallato e inasprito le regole dei governi precedenti. Le forze politiche non hanno avuto il coraggio di affrontare il tema in modo serio, mentre i sindacati, tradizionali difensori dei diritti dei lavoratori, non sono stati capaci di organizzare una resistenza incisiva. Anche i media, che avrebbero potuto stimolare un dibattito pubblico, hanno trattato la questione con indifferenza, relegandola a un tema secondario.

Questa continua alterazione delle regole, che di fatto sta allungando l’età pensionabile senza porsi il problema delle reali condizioni fisiche e professionali dei lavoratori, è una vergogna che non può essere ignorata. L’asticella dell’età pensionabile viene alzata progressivamente, con l’obiettivo implicito di fare in modo che sempre meno persone riescano effettivamente a riscuotere una pensione, o perlomeno a goderne appieno. Questo non solo mina la dignità di milioni di lavoratori, ma rischia di compromettere irreparabilmente la coesione sociale.

È necessaria una riflessione profonda e un’azione concreta per ripristinare un sistema pensionistico che sia giusto ed equo. Non possiamo permetterci di continuare su questa strada, dove i diritti dei lavoratori vengono costantemente violati in nome di una sostenibilità che si realizza a scapito delle persone più vulnerabili. È ora di ripristinare la giustizia sociale, di rivedere le riforme pensionistiche e di garantire un sistema che non penalizzi le generazioni future. Cambiare le regole unilateralmente, senza ascoltare chi ne subisce le conseguenze, è un tradimento che mina la fiducia nei confronti delle istituzioni.

L’Italia non può permettersi di ignorare questa ferita: è tempo di rimettere al centro i diritti e la dignità di chi tiene ancora in piedi questo Paese.