Per avere una seppur vaga idea della confusione e dei paradossi della guerra in Libia, che la fanno già sembrare una fotocopia del caos e di opposti interessi che hanno caratterizzato per anni il conflitto in Siria, è sufficiente ricordare chi sia Khalifa Belqasim Haftar. Generale 75enne, partito da Bengasi, in Cirenaica, sta cercando di riunificare il Paese, dopo aver stretto alleanze con le varie tribù lungo i territori costieri nella sua marcia verso ovest, portando da sud l'attacco finale verso Tripoli, in modo da evitare prudentemente uno scontro con le milizie presenti a Misurata.

Haftar era tra gli ufficiali che aiutarono Gheddafi a salire al potere nel 1969. Negli anni '80 durante una guerra contro il Ciad fu fatto prigioniero, e salvato poi dalla CIA e che lo ospitò per 20 anni in Virginia. Tornò in Libia solo nel 2011, proprio per unirsi alla rivolta contro Gheddafi.

Nella sua avanzata verso Tripoli, Haftar ha il sostegno dell'Egitto, degli Emirati Arabi Uniti e dell'Arabia Saudita, che lo vedono come lo strumento per ripristinare la stabilità e combattere i militanti islamici, secondo loro appoggiati dal Qatar con cui, nel 2017, hanno rotto i rapporti. Da non dimenticare neppure il ruolo della Francia, con Macron che sta "informalmente" sostenendo Haftar, mentre come membro dell'Unione europea riconosce ufficialmente come legittimo il governo di Tripoli, anche se finora si è rifiutato di approvare una risoluzione della Ue che esorta Haftar a fermare la sua avanzata.

Anche se Onu ed Europa riconoscono come legittimo il governo di al Sarraj, in realtà la sua autorità non solo non si estende alla Tripolitania, ma non va neppure più in là di alcuni quartieri della capitale. Tripoli, infatti, è in mano alle bande di milizie locali che per ora hanno deciso di non stringere accordi con Haftar, le cui truppe sono al momento bloccate alla periferia della città.

Il Qatar, che appoggia al Sarraj, ha chiesto all'Onu di intervenire per sospendere la fornitura di armi ad Haftar da parte degli altri Paesi arabi. A supportare al Sarraj c'è anche l'Italia, con il premier Conte che vagheggia un ruolo di mediazione per il nostro Paese, mentre i due vicepremier litigano sul fatto di dover (ri)aprire i porti (mai peraltro tecnicamente chiusi) per accogliere i migranti provenienti dalla Libia che, essendoci una guerra in corso, sarebbero formalmente dei profughi e, in base alle convenzioni internazionali, avrebbero diritto di asilo.

Nel frattempo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è incapace di decidere alcunché sulla vicenda, perché ostaggio sul tema di opposti interessi da parte di Russia e Stati Uniti.

E praticamente in ostaggio si trovano anche i circa 2,5 milioni di persone che abitano a Tripoli e che, nonostante il rumore dell'artiglieria si faccia sentire in lontananza, per adesso continuano a vivere normalmente, come se nulla stesse accadendo.

Anche se il conflitto è tuttora agli inizi ha finora causato 174 morti, 756 feriti e 18.250 sfollati, secondo gli ultimi dati raccolti dalle Nazioni Unite.