C’è un grande assente, oggi, nel dibattito pubblico italiano: il lavoro! Non quello raccontato nei convegni, nelle statistiche da salotto o nei programmi elettorali in campagna. Parlo del lavoro che si fa ogni giorno nelle scuole, negli ospedali, nei cantieri, negli uffici pubblici e privati. Quel lavoro che viene pagato poco, troppo poco, e che ormai non basta più a vivere dignitosamente.
Il tema degli stipendi e delle pensioni sembra essere stato rimosso dalle agende politiche, come se fosse una pratica archiviata, un capitolo chiuso. Nessuno ne parla più. E, cosa ancora più grave, nessuno fa nulla. È un silenzio colpevole, quello della politica, e pesa come un macigno sulla pelle di milioni di persone che ogni mese devono far quadrare i conti, spesso con grande fatica e con sempre meno speranza.
Viviamo in un Paese dove gli stipendi medi sono tra i più bassi d’Europa. Nel frattempo, il costo della vita continua a crescere. Bollette, carburante, affitti, generi alimentari: tutto aumenta, tranne gli stipendi. I salari reali si sono erosi lentamente, anno dopo anno, fino a diventare ciò che sono oggi: insufficienti. E non è più solo una questione di precarietà o di giovani sottopagati. Anche chi ha un lavoro fisso, chi è entrato in pianta stabile nella pubblica amministrazione o nell’impresa privata, oggi fatica ad arrivare alla fine del mese. Il lavoro non garantisce più un’esistenza serena. È diventato, per molti, solo un modo per sopravvivere.
Eppure, chi dovrebbe accorgersene, chi ha il dovere di mettere mano al problema, resta muto. Volta lo sguardo altrove. L’adeguamento dei salari al costo della vita non è nemmeno più tema da dibattere. È scomparso da ogni agenda, come se non fosse una priorità. E invece dovrebbe esserlo. Perché senza lavoro giusto, non c’è dignità. E senza dignità, non può esserci nemmeno una vera democrazia.
Lo stesso silenzio domina sul fronte delle pensioni. Non si parla di riforme serie, strutturali. Non si discute di rivalutazioni che permettano agli anziani di vivere gli ultimi anni della loro vita con serenità. Oggi, il passaggio dallo stipendio alla pensione è un baratro. Si va in pensione con assegni che non consentono di pagare nemmeno le spese essenziali. Altro che godersi la vecchiaia: è diventata un incubo da affrontare con il timore di diventare un peso per la propria famiglia.
Nel frattempo, resta in piedi la legge Fornero, che innalza l’età pensionabile a livelli disumani. Si lavora fino a 67, 68, 70 anni. In pratica, si lavora finché si muore. E non è un’esagerazione: quanti sono oggi i lavoratori anziani costretti a tirare avanti con il mal di schiena, la vista che cala, le energie che mancano? In certi casi, si muore con la testa sulla tastiera, o con le mani ancora sulla cazzuola. Altro che meritato riposo.
Ma perché nessuno fa nulla? La risposta è semplice, seppur amara: perché chi dovrebbe intervenire, chi siede in Parlamento, chi decide, gode di stipendi e pensioni d’oro. Loro non sanno cosa significa vivere con 1.100 euro al mese. Non devono scegliere se pagare la bolletta o fare la spesa. Non devono decidere se comprare le medicine o il pane. E non vogliono saperlo. Hanno vitalizi, auto blu, rimborsi e stipendi da capogiro. Per loro, la pensione non è un problema. Anzi, resterebbero volentieri "al lavoro" a vita, a quelle condizioni.
E allora, basta. Basta con le promesse a vuoto. Basta con le manovre che non toccano mai il cuore del problema. Serve un cambio di rotta vero, profondo. Serve rimettere al centro la giustizia sociale. Servono stipendi adeguati, che permettano di vivere, non di sopravvivere. Serve una pensione che garantisca la continuità del tenore di vita, che premi il lavoro fatto e non lo cancelli con un colpo di spugna.
Non possiamo più accettare che i sacrifici vengano sempre chiesti agli stessi. Non è più tempo di aspettare. È tempo di pretendere.