A volto coperto: IL DELITTO MUSY - I parte
La realtà supera la fantasia: quante volte lo abbiamo sentito dire? Di fatto, i piani si confondono, forse gli sceneggiatori sanno cose che noi non sappiamo; quando seguiamo film o fiction, l’incanto della rappresentazione ci seduce e perdiamo la barra. Invece, certe tragedie accadono e non ce ne vogliamo fare una ragione.
Alberto Musy, il 21 marzo 2012, è un torinese di quarantasei anni perfettamente realizzato, almeno in apparenza: avvocato (con studio ereditato dal padre e gestito insieme alla sorella/collega), docente universitario, politico, sposato e padre di quattro figlie. L’area in cui si muove è il centro destra moderato, ma questo non gli ha impedito di prendere posizioni forti, in un mondo dove esporsi è temerario, distinguendosi in due ambiti: la richiesta di legalità ai “Murazzi”, dove la movida del capoluogo piemontese si muove tra locali non sempre in regola; ma, soprattutto, la questione Tav, riguardo cui ( si evince da un’intervista nei cantieri) egli si era espresso con molta chiarezza a favore, lamentando una disinformazione ventennale, e la necessità di riportare Torino a fasti ormai persi, collocandola in un “corridoio” cruciale per la mobilità europea.
Quel maledetto giorno, prima di recarsi in studio, Alberto accompagna a scuola le figlie che ci vanno ( l’ultima ha appena tre anni), compito che svolgeva di buon grado, benché la moglie non lavorasse fuori casa: lo descrivono come padre e marito premuroso e attento, una vita senza ombre. Improvvisamente, nella corte del signorile palazzo in cui vive, gli si presenta dinanzi un individuo incappottato, con il casco in testa, che gli spara e lo lascia per terra. L’avvocato morirà dopo diciannove mesi di coma, senza riprendere conoscenza, il 22 ottobre 2013.
Le indagini annaspano finché, mettendo insieme testimonianze varie, filmati di telecamere, studi antropometrici e situazioni in cui la vittima si aggirava in veste politica, viene individuato il possibile colpevole: un ragioniere calabrese, torinese d’adozione, più o meno coetaneo di Musy. Francesco Furchì, che verrà poi condannato all’ergastolo. Movente: invidia ( è già la seconda volta che ci imbattiamo in tale motivazione, come già nel delitto D’Aniello, a Firenze, 2003). Premettiamo subito che la causale, qui, ci convince già di più.
Che questo vizio capitale sia “ una brutta bestia” – altra definizione popolare – non possono esservi dubbi. Nel caso di specie, in dibattimento si ipotizza (più che provare) che Furchì, un fallito sempre in cerca di un posto al sole, abbia tampinato per anni Musy, sua vecchia conoscenza acquisita per vie traverse venendone, a suo parere, abbindolato, usato e gettato, fino a maturare il progetto della peggiore delle rivalse. Prima di entrare nel merito degli eventi, va detto che in questo processo è sfilato un “parterre” di testimoni “eccellenti”, sia per il milieu che circondava l’avvocato ucciso, che per la sua figura di spicco come consigliere comunale, di talché furono convocati l’ex sindaco della Mole e già presidente della regione Piemonte, Sergio Chiamparino che l’ex ministro Salvo Andò: veder ricomparire, come Araba Fenice, un protagonista della prima Repubblica, e nel profondo nord, un po’ stupisce.
Sappiamo poco del calabrese, veramente. Leggiamo così, per esempio sul Fatto Quotidiano “L’imputato… con aspirazioni in politica e negli affari legati alla politica, era stato presentato a Musy per aiutarlo durante la campagna elettorale a sindaco del 2011 da un professore della facoltà di giurisprudenza dove Musy insegnava. Le indagini della polizia durarono quasi un anno: a stringere la rete attorno a Furchì fu proprio il docente che lo aveva presentato a Musy, Pier Giuseppe Monateri: mentre era intercettato dalla questura parlando con una amica disse di aver riconosciuto le sembianze dell’imputato sotto il casco dell’uomo che camminava in via Barbaroux…”
Cosa facesse in realtà il Furchì nella vita, per mantenersi, non è chiaro dalle risultanze mediatiche. Sembrerebbe aver covato ambizioni da faccendiere vecchia maniera, da nord a sud ( qui la supposta conoscenza con Andò), fino a fondare l’associazione “Magna Grecia”, con sede a Torino, che doveva unire la cultura calabrese con quella piemontese (afferma lui in udienza), operando un proficuo scambio per mera spinta idealistica e non certo per costituire un gruppo di pressione che, con il suo potenziale bacino elettorale, potesse far gola al defunto.
Diciamo subito che, anche così fosse, non ci sarebbe stato nulla di eccentrico in un’ottica squisitamente di scambio: così fan tutti (o quasi), ma Furchì nega, optando per un’immagine trasparente. Tuttavia altre nubi vengono addensate sulla sua figura: Magna Grecia stava fallendo, il matrimonio di Francesco pure, il tentativo di rilevare una società andato a vuoto, sempre per il rifiuto di Musy a una favorevole mediazione, l’uomo era disperato, sostanzialmente frustrato e furibondo per essere stato “scaricato” dal mondo politico locale, per cui si sarebbe tanto speso. La figura cristallina e vincente di Musy lo ossessiona e decide di farla pagare a lui, per le delusioni accumulate nel tempo. Grosso modo sono tutti schierati a favore di questa tesi, con pieno appoggio degli studiosi del linguaggio e suoi derivati, che ormai ci propinano regolarmente le loro tesi basandosi su una preposizione, una smorfia, un sospiro.
Ora passiamo ai pochi che hanno costruito uno scenario diverso e più favorevole al condannato. Si legge su Panorama, in un articolo di Carmelo Abbate del 25 novembre 2015, una sorta di requisitoria difensiva ( Abbate è spesso garantista ufficiale della trasmissione “Quarto Grado”), che sintetizziamo noi: Furchì non poteva sapere a che ora si sarebbe mosso il suo obiettivo che, da libero professionista, usciva a ore sempre diverse e, nel trasporto delle figliole, si alternava alla moglie a seconda dei giorni, senza un calendario prestabilito; la telecamera che inquadra il killer mentre si avvicina non lo rileva nei giorni o settimane precedenti, nemmeno per un sopralluogo, indispensabile in questi casi; né ci consegna un qualche passante sospetto, eventuale complice ( a parte un tizio con mascherina, ma in orario successivo al delitto).
L’avvocato, alle 8.05 di quella mattina, viene attinto da quattro colpi da una pistola che non verrà mai trovata (ci torneremo) e giace sul suo sangue che scorre copiosamente; nondimeno, avrebbe trovato la forza di dire, non si sa bene in che sequenza, diverse frasi, tipo: “ In che razza di mondo viviamo, che arriva uno e ti spara senza motivo?” e, prima di cadere in coma, alla moglie, parlerà di un pedinamento, di un attentatore robusto con impermeabile scuro, casco bianco e pacchetto in braccio, la bocca sigillata da un nastro adesivo e di aver notato un motorino. Alcuni testimoni confermeranno di essere stati colpiti da questo losco personaggio con la scatola ostentatamente tra le mani, ma a piedi. Musy conosceva bene Furchì: possibile che non lo abbia identificato nemmeno vagamente?
Poiché anche noi siamo discretamente garantisti, ma rispettiamo le sentenze, dobbiamo attenzionare le motivazioni dell’accusa, poi trasformata in sentenza: il violento (in famiglia, si dice, ma la moglie aveva ritirato una precedente denuncia) e velleitario Furchì, quel giorno stava sbaraccando la sede dell’associazione fallita, con l’aiuto di due brasiliani; aveva insistito per farlo in quella data e a una tale ora (circa le sette e trenta), per potersi allontanare con una scusa, andare un momento a uccidere Musy e poi sgattaiolare da qualche parte, infatti gli operai non lo vedono più e il telefonino si scollega. Non v’era necessità di osservare gli spostamenti della vittima, perché il calabrese ne conosceva le cadenze, il tal giorno in tribunale, un altro in studio, un altro ancora all’Università di Novara e sapeva quando poterlo intercettare.
Primariamente ci incuriosisce l’affermazione di uno dei due brasiliani al processo: egli afferma di trovarsi malissimo, nel ruolo di testimone, poiché in Brasile chi accetta di farlo è un infame per definizione e rischia la vita. Davvero il Brasile moderno è così tribale? Se qualcuno si limita a parlare di una circostanza, che non danneggia nessuno e va a favore anche di personaggi in vista, che rischia? Il signore aveva paura di un ruolo pericoloso in Brasile, ma siamo in Italia: non è che forse alludeva alla Calabria? Sia detto questo solo perché su un sito (Newsandcom.it) si parla di delitto su commissione “ con soldi calabresi” (30.000) euro, emerso da intercettazioni tra la sorella di Furchì e un amico del consigliere ucciso ( ma che ragione avrebbero avuto questi due signori per parlarsi, e quando? Il link, a propria volta privo di data, non lo specifica).
Non meno ci colpisce la potenza di fuoco contro tale signor Filippis ( male in arnese) e la moglie: poiché si insinua che costui avrebbe fornito l’arma, tenuta nascosta in un orto, viene fuori un’attività di indagine meticolosissima sugli scarni dialoghi in auto tra lui e la consorte, che in dibattimento vengono tartassati senza che, peraltro, ne esca fuori nulla.
Tralasciamo ciò che afferma Chiamparino (molto diplomatico, presto lasciato andare senza pressarlo). Salvatore “Salvo” Andò, invece, nega recisamente un caposaldo dell’accusa: che Furchì si sarebbe compromesso con Musy, al fine di caldeggiare la carriera universitaria del figlio dell’ex ministro socialista e, ricevendo un rifiuto ad aiutare questa candidatura, ne avrebbe ricavato una ulteriore mortificazione delle sue ambizioni. C’è di che sconcertarsi, perché il calabrese è una nullità rispetto ad Andò, non ne è nemmeno corregionale ( a voler pensar malissimo, per ipotesi): figurarsi se il politico siciliano avrebbe avuto bisogno di questo signor nessuno, per aiutare il proprio figlio. Questo sarebbe sì, un mondo strano, perché di solito, ci dicono, le raccomandazioni funzionano diversamente, dall’alto al basso, e non viceversa, e con l’aspettativa di una lauta ricompensa, che casomai Furchì avrebbe dovuto attendersi da Andò, non da Musy.