Di SALVO PALAZZOLO (La Repubblica)

Nel libro dello storico Petrotta i documenti dei servizi segreti americani “Mandanti dell’eccidio furono i boss, minacciati dalla lotta per le terre”.

«Office of Strategic Services. Report n. J-228/2 gennaio 1944. La mafia si è riorganizzata e ha ripreso a spargere il terrore nella comunità di Montelepre. Fra i suoi membri più pericolosi si segnala Giuliano, un ventitreenne dal carattere forte e determinato, responsabile dell’assassinio del poliziotto Mancini. Firmato: agente Z». Dagli archivi americani emergono nuovi documenti dei servizi segreti che spazzano via, ormai definitivamente, il mito del bandito Salvatore Giuliano. Altro che moderno Robin Hood in lotta per l’indipendenza della Sicilia, Turiddu che ruba ai ricchi per dare ai poveri, già all’inizio della sua ascesa fra le montagne della provincia di Palermo era indicato dall’intelligence statunitense nella lista dei most dangerous leaders” i più temibili delle cosche, assieme a tale «Remigi, ai fratelli Di Maria, a Badalamenti. Ricercati per vari crimini commessi contro la proprietà e le persone — scriveva l’agente Z — i ribelli vivono nei boschi e agiscono con la complicità di almeno venti elementi della città». Dopo la strage di Portella della Ginestra, del primo maggio di 41 anni fa, vennero scritte parole ancora più chiare: l’agente speciale del controspionaggio americano George Zappalà definiva la banda Giuliano «un’organizzazione terroristica mafiosa, accusata di aver commesso numerosi crimini in Sicilia».
Un libro riscrive la storia del bandito di Montelepre. Si intitola: “Salvatore Giuliano, uomo d’onore. Nuove ipotesi sulla strage di Portella della Ginestra” (Edizioni La Zisa). L’autore, Francesco Petrotta, è uno dei maggiori conoscitori della storia del movimento contadino siciliano. Dopo aver recuperato nuovi documenti nei National Archives americani ha riesaminato gli atti dei processi alla banda Giuliano e poi le dichiarazioni di storici collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta. Tanti tasselli che adesso non descrivono più un bandito aiutato dalla mafia, ma un mafioso vero e proprio, che il primo maggio del 1947 non commise errori o ingenuità sparando sui contadini riuniti a Portella per la festa dei lavoratori. «Piuttosto, ritengo che abbia eseguito delle direttive dell’organizzazione criminale di cui faceva parte», dice Francesco Petrotta. E spiega: «Fino ad oggi, gli storici hanno cercato di scoprire i volti dei mandanti di Portella analizzando i rapporti che Giuliano intratteneva con alcuni uomini politici indipendentisti e del centrodestra. Credo invece che la strage doveva servire a salvaguardare il potere di Cosa nostra, messo in discussione nelle campagne dalle occupazioni delle terre da parte del movimento contadino, che all’epoca era il primo movimento di massa contro la mafia. E con quella strage — aggiunge l’autore della ricerca — Giuliano si schierò a tutela degli interessi della casta degli agrari di cui la mafia era parte integrante».
Ma mancano ancora molti tasselli di questa storia. Nonostante la lettera dell’allora presidente del Consiglio Romano Prodi che nel 1988 invitava alla desecretazione di tutti i documenti riguardanti Portella. Spiega ancora Petrotta: «Non sono a disposizione degli studiosi gli atti istruttori che furono fatti dalla procura di Palermo dopo la denuncia dell’onorevole Giuseppe Montalbano sui mandanti dell’eccidio, il 25 ottobre 1951. E risultano ancora secretati gli atti sull’omicidio del bandito Gaspare Pisciotta, ucciso il 9 febbraio 1954 all’Ucciardone».
Due anni prima dell’ultimo caffè — alla stricnina — il braccio destro di Giuliano aveva svelato in un interrogatorio che il bandito di Montelepre era un uomo d’onore, «battezzato — così avrebbe detto — in un convegno di alti dignitari della mafia». Chi erano quegli alti dignitari? Il verbale è ancora un segreto di Stato.