La percezione italiana dei fenomeni migratori, complice la propaganda incessante dei partiti xenofobi di destra, è sempre più orientata verso atteggiamenti ben riassunti dalla frase “Gli stranieri non si integreranno mai”.
Un’altra idea diffusa è che l’Italia abbia conosciuto l’immigrazione solo nell’ultimo decennio, ma questa convinzione può essere smentita tornando agli anni Novanta, quando il Paese si è trovato a gestire quello che oggi viene ricordato come l’esodo albanese.
Il 7 marzo del 1991 l’Italia scoprì di essere considerata “Lamerica” del popolo albanese.
In Albania stava crollando il regime comunista di Enver Hoxha, di ispirazione marxista-leninista, che aveva condannato il Paese all’isolamento e alla povertà assoluta.
Spinti dalla promessa di benessere dei canali televisivi italiani, che ricevevano anche dall’altra sponda dell’Adriatico, furono in 25mila a tentarne la traversata.
Partirono soprattutto dalle campagne, dove viveva il 70% della popolazione, utilizzando navi mercantili e imbarcazioni di fortuna che raggiungevano il porto di Brindisi, cariche di uomini, donne e bambini affamati.
La città, che non era preparata ad accogliere una folla di questo tipo, si ritrovò in piena emergenza umanitaria. Il sesto governo Andreotti tentennò per cinque giorni prima di intervenire decidendo di aiutare i boat people: alcuni vennero trasferiti in Sicilia, altri in Basilicata, altri ancora in abitazioni private e centri sociali pugliesi.
L’ondata migratoria di marzo, accompagnata da una forte empatia da parte degli italiani, si replicò a distanza di cinque mesi esatti. Il 7 agosto 1991, 20mila fuggiaschi si riunirono a Durazzo, prendendo d’assalto la nave mercantile Vlora, di ritorno da Cuba con un carico di zucchero.
Una volta a bordo costrinsero il comandante Halim Milaqi a salpare per l’Italia. Il cargo raggiunse Brindisi il giorno successivo, ma, dopo il divieto di attraccare da parte della prefettura della città, fu costretto a dirigersi verso il porto di Bari.
A differenza di quanto accaduto poche settimane prima, il governo si oppose allo sbarco degli albanesi. Le persone a bordo del Vlora vennero prima sistemate nello stadio della Vittoria di Bari e poi, con la falsa promessa di essere trasferite a Venezia, rimpatriate a Tirana.
A distanza di quasi trent’anni da quello che diversi giornali definirono un “assalto” o una “invasione”, gli albanesi sembrano scomparsi dalle cronache nazionali. All’epoca, l’ostilità nei loro confronti era così alta che l’ex presidente della Camera Irene Pivetti disse addirittura che dovevano essere “ributtati in mare”,e che ” le loro navi andavano affondate”.
Oggi, secondo i dati forniti nel 2019 dal Ministero del Lavoro, i cittadini di origine albanese regolarmente soggiornanti in Italia sono 430mila. Rispetto agli anni in cui venivano accusati dell’impennata di crimini, oggi nessun partito politico penserebbe di bersagliarli durante la campagna elettorale.
Il motivo è che la comunità albanese si è perfettamente integrata e gli italiani non li percepiscono più come una minaccia.
Intervista a Julian Zhara.
Julian Zhara, poeta, performer, organizzatore di eventi culturali, è nato a Durazzo (Albania) nel 1986. Si e’trasferito in Italia nel 1999. Ha all’attivo due pubblicazioni, In apnea(Granviale, 2009) e Vera deve morire (pubblicata da Interlinea sulla collana Lyra giovani a cura di Franco Buffoni nel 2018).
Cura assieme a Blare Out, il festival di poesia orale e musica digitale Andata e Ritorno.
Nel 2016 gli viene assegnata una menzione speciale al Premio Internazionale di Poesia Alfonso Gatto. Sue poesie sono presenti in blog e riviste specializzate. Il suo nome e un suo testo (Elefante bianco) è citato da Paolo Giovannetti nel saggio La poesia italiana degli anni Duemila (Carrocci, 2017).
Vive lavora e scrive a Venezia.
Di recente gli è stato assegnato il premio Lermonton alla XVIII edizione del festival nazionale della poesia “città di sant’anastasia”che viene dato alle personalità del campo poetico che si distinguono per una sensibilità speciale nel mix e sintesi di diverse lingue e culture prevedendo nuovi criteri artistici.
Alla domanda se sia sospeso tra due mondi,quello italiano e quello albanese risponde : Sono abitato da moltitudini di mondi, a cui aderisco e non intendo, né ho mai voluto, “targetizzarmi” granché. Civile, performer, neometrico, lirico, sperimentale, giovane poesia veneta, giudecchino, veneziano, albanese, italo-albanese.
Da tempo desideravo incontrarlo anche per l’estrema versatilità di pensiero che traspare dai suoi scritti in cui la poesia è sorpresa a dialogare con la narrativa e con l’arte.
Dal nostro dialogo è nata l’idea di ricavare questa intervista.
Leggendo ”Cuccia”, tuo poema di notevole intensità a tratti aspro, forte, intenso e pungente ("Bada che vengono i morti, rinnovano l’invito a pestare le orme dei sogni già masticati da bocche più grandi di te”) mi ritornano alla mente i migranti morti in mare. Che posizione hai in merito?La mia posizione è quella di un uomo con una storia e personale e collettiva alle spalle. Come storia personale, sono migrante e figlio di migranti, che agisce sul contesto di adozione, la lingua di adozione. Come collettiva – il popolo albanese, negli anni Novanta, ha attraversato l’Adriatico in navi di fortuna, non molto diverse da quelle che impazzavano nei media l’anno scorso. Ci sono stati i morti, i feriti a morte, se pensiamo soprattutto alla vicenda della nave Katër i Radës. Ricordo ancora l’uscita dell’allora leghista Irene Pivetti come ricordo le fiaccolate contro gli albanesi di Bossi e dei suoi, per il caso Erica e Omar. Sui migranti di oggi non posso che continuare a ricordare e mettere in atto tutta l’empatia di cui sono in grado. I versi che citi si riferiscono ad altro: prendo in prestito un verso di Pascoli per dare il la all’intera poesia. Volevo suonare la poesia con un ritmo serrato, dattilico e i morti sono i giganti della tradizione poetica di cui mi facevo testimone. Si inizia con “Bada che vengono i morti”, di Pascoli, appunto e l’ultimo verso, per una visione circolare è una sorta di traduzione mia: Occhio che tornano i morti. Ritmo identico – lingua cambiata; veicolo: la poesia.
I migranti, per utilizzare una tua espressione, sono i ”peli verticali sulla pelle del mondo”?Siamo tutti come peli verticali sulla pelle del mondo. I migranti spesso sono come i peli incarnati, e nella loro terra e in quella di adozione.
Mi presti un’opinione? La riporto tra un anno, promesso.Grazie della citazione. Negli ultimi due anni, devo dirti la verità, ho proprio un senso di allergia alle opinioni e alla figura, tanto catchy, televisivamente parlando, dell’opinionista. Ritengo le opinioni siano gli operatori ecologici del pensiero: raccolgono gli scarti, differenziati, per poi – si spera – riutilizzarli in maniera meno dannosa possibile per l’ecosistema. Ma scarti rimangono.
Parafrasando una tua frase in ”Vera deve morire” è l’odio o l’amore a trascinare più zavorre e detriti dietro di sé?Decisamente l’amore. L’odio, soprattutto rivisto attraverso la neolingua dei media e del giornalismo, viene rivestito di lino, elegante ma non fatiscente – c’è sempre un atteggiamento passivo-aggressivo ad ammorbidirne la ricezione. Purtroppo è una parola che si legge molto poco. Quanto all’amore, l’amore è anche una parola e in quanto parola, da poeta, non posso che interrogarmi sulla sua natura, analizzarne i detriti, le idiosincrasie. Ormai la tendenza, portata alle estreme conseguenze da Arminio, Evan e altri, è di farne un veicolo di comunicazione, commerciale, come il nudo femminile nel marketing. Dici amore e vendi dieci volte tanto. Per questo non ho voluto ci fosse quel termine come titolo del libro.
Da albanese, il tuo sguardo è lanciato oltre le colline “ove par di udire il sibilo di un kalashnikov”. Credo che tu comprenda molto bene la sofferenza di amare una terra e non poterla vivere.E dunque bisogna accogliere chi fugge?Ti direi di sì, decisamente ma ciò che fa la differenza, non è da cosa si fugge, è verso cosa si va. L’accoglienza è una parte integrante della nostra umanità. La migrazione è uno dei processi cardine del sistema evolutivo. Basta pensare ai piatti tipici della tradizione italiana e la provenienza dei prodotti. Riflettiamo anche al fatto che la musica, le arti marziali (penso al Brazilian Jiu Jitsu e Kali Arnis Escrima), la cucina, ogni forma d’arte è frutto dell’interrelazione tra popoli, della migrazione. Il regalo più grande che deve farsi chi emigra in Italia è un dizionario. Leggerlo ogni momento libero.
Siamo fatti dai luoghi da cui fuggiamo? Ho cercato di rispondere a questa tua domanda nel mio libro. Non solo le immagini, i profumi, ma anche la lingua di provenienza abita il nostro inconscio. Siamo fatti anche delle parole e dei suoni che abbiamo abitato e che ci abitano a livelli profondi.
Ho voluto questo incontro con Julian per ricordare il travagliato esodo albanese poiché tale evento vuole dire, anche e soprattutto, focalizzare la nostra attenzione sull’immigrazione odierna.È la storia stessa a insegnarci che quello dei flussi migratori è un fenomeno irreversibile e irrinunciabile. Come ci dimostra la comunità albanese, la via vincente per gestire l’immigrazione è la creazione di canali di migrazione legale, con politiche che facciano incontrare domanda e offerta, favorendo l’integrazione attraverso il lavoro.L’unico effetto della politica dei porti chiusi, invece, è aumentare il numero dei morti in mare e privare l’Italia e i Paesi di origine dei migranti di una grande occasione di crescita culturale ed economica.
Grazie Julian.