I piccoli borghi, così come le città, non sono solo delle "opere d’arte". Sono luoghi di vita e di cambiamento, mescolanza di economie e paesaggi, incrocio di generazioni. Quando un terremoto o altra calamità naturale li distrugge, non è agli storici dell’arte o ai cultori dei beni culturali che si possono chiedere le risposte (o almeno non tutte). Neppure ai soli ingegneri e architetti. Servono competenze varie che sappiano confrontarsi anche duramente sulle soluzioni possibili.

Così non accade, mai. Dopo ogni evento catastrofico, il Paese – nei suoi politici e nei suoi mezzi d’informazione – tende rapidamente a convergere intorno ad una posizione semplice e rassicurante. Non c’è tempo per il pensiero e per il dubbio. Più un fatto è complesso e difficile da risolvere e più sono immediate e semplici le ricette proposte.

Le città sono sempre state il luogo della rigenerazione e del cambiamento, non solo della ricostruzione. Un cambiamento che si è nutrito di demolizioni, di tradimenti, di usi impropri. Quante chiese sono state costruite su templi pagani, fraintendendone le forme e le materie; quante piazze sono nate da ruderi precedenti, da un foro romano, da una rovina. Se i nostri padri ci hanno consegnato borghi belli e talvolta di alta qualità paesaggistica, non è detto che oggi dobbiamo continuare a conservarli e preservarli come dei musei. Musei, magari, non adatti alla vita delle comunità e alla loro incolumità. Le città e i loro abitanti sono vivi e ci piace ricordare la cultura di un popolo è viva quando rinuncia a ripetere sé stessa e le grandezze del passato ma prova a modificare consuetudini e linguaggi.

Oggi non mancano i mezzi per coniugare bellezza e tecnica, per decidere secondo scienza e coscienza dove sia meglio costruire. Non possiamo più disgiungere l’arte e la bellezza dalla scienza e dalla tecnica: se i nostri antenati non avessero osato di più, non sarebbe mai nato l’ardimento del Rinascimento o del Barocco, sostenuti dalle nuove conquiste fisiche e matematiche.

Da qualche tempo siamo incapaci di generare nuova bellezza, forse perché abbiamo separato la forma dalla sostanza, la tecnica dall’estetica, l’anima dal corpo, rincorrendo il feticcio ora dell’uno ora dell’altro. Spesso i nostri progetti mancano di senso dell’impresa, di voglia di provare a fare diversamente. Attraverso una dinamica consolatoria, rischiamo di non cogliere i segni del nuovo, rischiamo di coprire il vuoto culturale e di idee del nostro tempo. Ogni innovazione richiede di perdere qualcosa, anche la certezza di rifare tutto uguale a com’era. Oggi in un’Italia sofferente e devastata, alcune regioni più di altre stentano a rinascere, hanno paura di decollare o di rialzarsi dopo che la natura li ha messi duramente alla prova.

Che cosa serve, allora, agli italiani e in modo particolare alle regioni del Sud, per vivere meglio?

Prima di tutto la sicurezza delle persone, delle città, dei paesi, perché è un bisogno essenziale, a meno della quale la gente se ne va e la comunità si scioglie. Senza la continuità della comunità non ha senso (cioè non possiamo capire il significato) di tutto il resto, tra cui la conservazione delle testimonianze. Le testimonianze, che chiamiamo Beni culturali, sono cose che segnano la storia della comunità e del territorio e che comunque testimonieranno di questa violenza naturale e del modo storico con cui a essa si è reagito: non ci sarà da nascondere l’intervento del XXI secolo che mette in sicurezza i luoghi dove abitare e da visitare, ma da vantarsene nei secoli a venire.

Solo la Costituzione del ’47 ha saputo esprimere una straordinaria capacità di resistenza perché, aldilà delle posizioni politiche, rispetto al Governo, una gran parte dei cittadini l’ha percepita come un qualcosa di “suo”: un qualcosa, nel panorama che ci circonda, di “amico”. Un bene che è meglio non perdere.

Dopo trenta anni e più sullo sfondo, il tema della storia dei paesi, dei centri storici ritorna in primo piano, perché sul territorio nessuna battaglia è vinta per sempre, e di nuovo minacce di cambiamento violento incombono sul cuore delle città italiane. Perché come sempre mancano gli equilibri: il troppo e il troppo poco devastano.

I centri come ben sappiamo non sono luoghi di quiete, come sembrerebbe se si bada oltre che alla pandemia, alla terra ballerina, alle cronache travagliate delle periferie o alle stragi di suolo perpetrate in aperta campagna.

Nei centri si stanno consumando cambiamenti dell’epoca, anche se di solito lasciano intatti i muri e le decorazioni storiche. E ora però, pare che anche i muri possono o debbano essere abbattuti…per un fine logistico, per uno scopo decorativo o di sicurezza che tende a migliorare il sito e renderlo funzionale al servizio dei cittadini.

Sono aperta al nuovo, ben venga tutto ciò che può contribuire a migliorare la mia città, la nostra provincia, il nostro paese. L’Italia deve avere come governanti: costruttori di bellezza e di pace e non disfattisti e nemici del popolo.

Ma non desidero soffermarmi sui muri… il discorso sui borghi è ben più ampio. Le città o piccoli paesi vanno abitati ma non monopolizzati, talvolta anche dagli stessi cittadini e abitanti. Le città devono essere aperte e fruibili, così i paesi, che per loro natura, sono oasi meravigliose di pace.

Tutto questo potrebbe “sollecitare” nuove possibilità, una nuova concezione del modo di vivere: molte sono le persone che decidono di lasciare le grandi città, troppo caotiche e intasate, per spostarsi nei piccoli paesini di provincia. Una scelta coraggiosa, modernissima e rispettabilissima. Ma allo stesso tempo andrebbe valorizzata con politiche attente e attraenti. Parlo di rovesciare il paradigma e pensare di “ritornare” a vivere nei piccoli borghi dal fascino antico e dall’esistenza tranquilla. È una possibile strada da percorrere.

Nei centri i cittadini sono sempre più spesso solo city users, mentre vi pernottano ormai solo foresti: poveracci di altri continenti o turisti senza albergo. Dobbiamo impedire che i centri delle nostre città italiane diventino luogo dove si congela lo status quo, dove le rendite di chi già abita i nostri luoghi, impediscano le azioni di chi potrebbe essere il nuovo utilizzatore, dove si cerca di fermare il fluire della storia, come capita per i centri storici che si museizzano, o che diventano il centro degli affari della città moderna.

Dobbiamo favorire chi viene ad abitare, e insegnare a usare questi luoghi, consapevoli di un ruolo di innovatori, della responsabilità di naviganti e contribuenti, dove mentre si viaggia si deve partecipare ad aggiustare e modificare la nave perché tenga il mare fino alla meta.

Ma non dobbiamo dimenticare che, ancora una volta, siamo al capezzale del sistema parlamentare. Che, nella sua architettura, è l’ottimo, ma che è condannato a scontrarsi con il legno storto con cui gli uomini sono fatti. Chi è interessato al buon funzionamento del sistema istituzionale e al modello di società che lo deve ispirare, non può non cimentarsi immediatamente con i mali che affliggono il presente e il futuro prossimo, e cioè non preoccuparsi di ridare una costituzione “riconosciuta” agli italiani, oltre che ben fatta ed efficace.

“La Calabria che è la punta dello stivale e non lo è a caso, sembra essere stata creata da un Dio capriccioso che, dopo aver creato diversi mondi, si è divertito a mescolarli insieme” questo è quanto sosteneva qualche intellettuale. Infatti, la Calabria, notoriamente possiede un patrimonio naturalistico, storico e culturale di straordinaria entità spesso dimenticato o ignorato. Un patrimonio presente soprattutto nei centri storici dei Comuni calabresi dove si evidenzia però un forte contrasto tra la ricchezza della storia e l’incuria della bellezza.

I centri storici calabresi, seppur connotati da spiccate caratterizzazioni storiche e naturalistiche d’indubbio valore, hanno subìto nel tempo una notevole dequalificazione che ne ha causato lo spopolamento e, in molti casi, la desertificazione. Così come va consumandosi, giorno dopo giorno, l’attrattività turistica della quale i centri storici calabresi dovrebbero essere diretta espressione. Oltretutto, è sempre più complicato per le amministrazioni comunali programmare percorsi di rivalutazione urbanistica e territoriale economicamente sostenibili che garantiscano ai centri storici di trovare nuova vita tra le pieghe del tempo.

Diventa allora necessario che la Regione, di concerto con le amministrazioni locali, intervenga per un recupero sostenibile dei territori, per l’innalzamento delle opportunità di crescita sociale ed economica delle comunità locali, per il riutilizzo e la riconversione del patrimonio abitativo storico urbano, per la valorizzazione delle risorse artistiche e culturali dei centri urbani minori e dell’entroterra, per il ripopolamento dei centri storici e la crescita delle opportunità di sviluppo turistico della regione.

La Calabria, in tal senso, è la regione delle mille tradizioni, dei mille dialetti, dei mille angoli splendidi ma sconosciuti. I borghi storici ospitali della Calabria hanno l’ambizione di uscire dal consueto e dall’omologato, e diventeranno un tour delle impressioni, che non si limiterà esclusivamente all’appagamento degli occhi.

Ogni Borgo Storico ha il suo tema, il suo racconto, la sua particolare tipicità emozionale, che sarà spiegata e trasmessa al visitatore, sia dai manufatti architettonici, dalle botteghe degli antichi mestieri e relative scuole di formazione, dalle tradizioni enogastronomiche e culturali, dalle botteghe tipiche e relative scuole professionali con esposizioni museali e informative.

PER L’ARTE E LA CULTURA CALABRESE si propone però, un’idea molto innovativa e originale attraverso il giusto connubio tra le manifestazioni della tradizione e i luoghi antichi delle città. Le manifestazioni, infatti, sono originali, non emulabili e, più di qualunque luogo esprimono la cultura di un popolo, le sue tradizioni e le sue origini.

È necessario sfruttare il richiamo esercitato dalle varie manifestazioni religiose e antropologiche, e comprensive delle minoranze etnolinguistiche per aumentare la godibilità dei Centri storici. In questo modo ogni singolo comune conserverà la propria identità e fornirà una proposta d’interesse che non andrà in concorrenza con quella degli altri, ma costituirà una singola parte di un’offerta aggregata varia e diversificata.

Quindi la crescente attenzione per i centri storici e la loro fruibilità, è giusta e sacrosanta vista la grande occasione offerta dal Recovery Fund nel quadro desolante della pandemia, che ha previsto per l’Italia 209 miliardi di Euro potrebbe essere di aiuto: parte di questi soldi potrebbero essere utilizzati per sbloccare le risorse messe a disposizione e per ridare dignità a una legge sospesa ma utile al nostro paese. I finanziamenti dovrebbero rafforzare l’attrattività dei borghi e dei piccoli centri storici, attraverso il restauro e il recupero di spazi urbani, di edifici storici o culturali, nonché attraverso la valorizzazione degli elementi distintivi e del carattere identitario dei luoghi.

Ma per migliorare ulteriormente la qualità di questi posti bisognerebbe potenziare le condizioni di accessibilità e dotare queste comunità d’infrastrutture per la mobilità sostenibile, l’erogazione di servizi e sistemi (anche innovativi ed eco-sostenibili) per l’accoglienza turistica, indispensabile fonte di reddito. Inoltre si potrebbero favorire processi di crescita economica attraverso il ripristino del territorio che, a causa dei cambiamenti climatici o catastrofi naturali, è soggetto ai rischi del dissesto idrogeologico vedi la nostra provincia di Vibo Valentia e la Calabria o vedi l’intera Italia, terra ballerina.

Una proposta importante, che guarda al futuro, alla rivalutazione dei tanti centri storici di Calabria troppo spesso abbandonati e degradati. Piccoli borghi, tradizioni e vecchie città antiche da non abbandonare, bensì da riportare al massimo splendore, come specchio e ricordo degli antichi abitanti di Calabria.

Auspichiamo, secondo questo programma timido e ispiratore, secondo le opportunità culturali che lo stato italiano sta offrendo alla Calabria per risollevarsi da ataviche e tristi condizioni, un buon risultato che potrà arrivare se cambierà il modo di fare politica, se cambierà la mentalità dei calabresi, che dovranno uscire da un vecchio e stanco individualismo e provare a "fare rete" con altre regioni italiane, se avranno l'abilità e la forza di portare la Calabria nel mondo, per far crescere e sviluppare questa terra e lanciarla nel mondo del progresso europeo e mondiale.

Urge un modo di fare politica e cultura in maniera condivisa, avendo ben chiaro un progetto d’insieme che abbia come attore principale il cittadino: motore e cuore pulsante di una città in cui centro e periferie siano un unicum armonioso, capace di valorizzare l’identità di una comunità e capace di abbracciare insieme passato e futuro in un presente dove dignità urbana, cultura e coesione sociale possano coabitare.