TACCUINO #59
Nel profondo, dove il pensiero incontra l’essenza stessa della sua impossibilità, giace una verità che solo i nervi, solo i neuroni cardiaci, solo le ossa, possono udire. Non una verità da apprendere, né da saper; non una verità da scoprire, ma da sentire — sentire visceralmente. È un sentire che non può essere afferrato dal cervello, una saggezza che scorre attraverso il sangue come un fiume impetuoso, eppure silenzioso, invisibile, che non ci chiede permesso per fluire attraverso il corpo. È lì che il concetto di saputo e conosciuto si sgretola come polvere, rivelandosi per quello che è: una finzione, un gioco di convenzioni, una proiezione che, senza l’intimità di un’esistenza vissuta, non muove senso.
Il progetto PsykoSapiens, che si erge tra la terra e il cielo come un monito e una via d’uscita, non è altro che il tentativo di distillare quella verità che non ha nome, che non si trova tra le righe di un manuale, che non si vede in una teoria, ma si percepisce nella pelle, nel cuore, nel battito, nel sentire viscerale. È lì che l’esistenza, nel suo essere più puro, svela le sue contraddizioni: ciò che è saputo non è conosciuto, ciò che è conosciuto non è realmente saputo. L’epifania della conoscenza non è un atto di illuminazione mentale, ma un atto di trasformazione biologica, una vibrazione, una scossa che attraversa il corpo come un fulmine che lascia il segno sulla carne e sulla mente, un segno che non si cancella.
Ciò che chiamiamo “morte” è una forma radicale di non-saputo, di non-conosciuto, di non-essere. Ma, nel nostro partecipare alla morte — non da spettatori ma da partecipanti attivi — siamo costretti a confrontarci con l’abisso di questa condizione esistenziale. Non c’è un semplice passaggio, non una transizione, ma un perdersi nel gioco della realtà che ci ha creati. Siamo inermi, non esistiamo in verità? Eppure ci troviamo a esistere nel nostro non esistere. Esistentivi del nulla. Il narciso, l’asfittico, il perverso, il dislocato, sono i volti della condizione di chi partecipa alla morte, ma senza poterla afferrare, senza poterla possedere, senza poterla definire. Sono ombre che scorrono nel nostro essere, mostri nati dal buio di un’esistenza che non riesce a emergere dalla sua condanna.
Questo stato di non-essere non è, però, un nulla. È una realtà che pulsa, che palpita, che sentiamo nel nostro corpo, un corpo che si scopre non più come una mera macchina organica, ma come il luogo in cui la coscienza prende forma e si dissocia dalla forma stessa. Qui entra in gioco il concetto di sentire viscerale: un concetto che sfida ogni separazione, che dissolve la barriera tra corpo e mente, che destruttura ogni dicotomia, ogni opposizione. I neuroni cardiaci, nel loro silenzioso sussurro, ci parlano di una realtà che precede la riflessione, che non è soggetta alla logica e alla razionalità. È un sapere che non ha parole, ma che è realtà in sé, pura, bruciante, non esprimibile. Solo nel cuore, nel battito, nel pulsare incessante, possiamo avvicinarci a ciò che ci sfugge, senza mai davvero comprenderlo.
PsykoSapiens, in quest'ottica, non è un’intelaiatura di pensiero da costruire o un oggetto da analizzare. È, piuttosto, un dissolvimento, una continua dissoluzione delle barriere, delle categorie, delle strutture che ci impediscono di afferrare la natura stessa della realtà. Non vi è una “meta” da raggiungere, né un’idea da formulare, ma un percorso che si fa e si disfa nel corpo, nei sensi, nell’interazione costante con l’“altro”, l'infero, che mai possiamo conoscere, ma che del solo dir possiamo pensare di conoscere. La morte, il non essere, il non sapere, sono parte di questo processo. E non possiamo fare altro che partecipare a questo gioco, lasciandoci consumare dalla sua forza. Non possiamo conoscere la morte, non possiamo conoscere noi stessi nel senso tradizionale, ma possiamo sentire ogni scossa che essa produce.
E così, in questo abisso di non-saputo, si svela il mostro della nostra esistenza: non è un essere separato da noi, ma una parte integrante di ciò che siamo. La nostra condizione di partecipanti della morte ci rende parte di essa, la rende nostra, la facciamo nostra. Non è una separazione, ma un'unione che ci consuma e ci definisce. Noi siamo la morte, partecipiamo a essa non come attori esterni, ma come esseri che sono intrinsecamente coinvolti nel suo svolgersi. Questo è l'orrore, ma anche la sua forza. La potenza che nasce dal nostro essere parte di qualcosa che non possiamo comprendere, ma che sentiamo nel nostro corpo, nella nostra carne, nei nostri neuroni cardiaci.
In questo gioco senza fine, senza fine perché senza origine e senza termine, si dissolve ogni tentativo di definire, di circoscrivere. La ricerca di un “linguaggio nuovo” diventa allora il tentativo di spingersi oltre la parola, oltre il pensiero, oltre ogni confine che la mente possa tracciare. È una ricerca che non ha risposte, ma che pulsa incessante nel cuore di ogni battito, nel silenzio di ogni respiro. Ogni parola, ogni frase, ogni concetto, è solo un accenno, una vaga traccia che non può mai essere colta in tutta la sua pienezza. L’azione stessa di scrivere, di pensare, diventa un atto di trasformazione e di dissoluzione, un incessante riposizionarsi nei confronti di ciò che sfugge e che, pur sfuggendo, ci definisce.
Il tacito accordo tra il saputo e il conosciuto si infrange qui, nella densità di questa esperienza viscerale, dove il pensiero non basta, e la parola non è più sufficiente. Ma non possiamo fare a meno di cercare, non possiamo fare a meno di provare a dirlo, a scriverlo, a trasformarlo.
Anche se sappiamo che ogni tentativo è destinato a fallire, sappiamo che in questo fallimento risiede la nostra esistenza.
Ecco, forse, il senso di ciò che facciamo nel nostro percorso. Non risolvere mai, ma immergerci in questo flusso incessante. Questo è nostro, è condanna, ma anche la nostra potenza.