Nell’ormai lontano 1975, io ero al primo anno di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, accadde un fatto rivoluzionario: con la legge 19 maggio 1975, n. 151 fu varata la riforma del diritto di famiglia. Le vecchie disposizioni in materia erano state ereditate dal passato regime monarchico e fascio/ecclesiale post Patti Lateranensi sottoscritti l’11 febbraio 1929 e sono sopravvissute alla Costituzione - entrata in vigore nel 1948 - fino al 1975 infatti fino a quel momento era disciplinato dal REGIO DECRETO 16 marzo 1942 XX, n. 262 e dal Codice Rocco risalente al 1930.

Quell’immobilismo giuridico fu scosso dalla promulgazione della legge n. 898 del 1° dicembre 1970 che introduceva il divorzio in Italia (successivamente modificata nel 1987 con legge n. 74) che metteva in discussione uno dei cardini del vecchio diritto di famiglia: cambiava radicalmente la posizione giuridica della donna nell’ambito della famiglia e di riflesso nella società italiana e, allo stesso tempo, sottraeva al diritto canonico e al Tribunale della Sacra Rota la trattazione esclusiva delle cause di annullamento del matrimonio.

Crollava il potere indiscusso del padre/marito padroni della vita della donna come figlia prima e come coniuge dopo: una degradante ed inappellabile sudditanza giuridica per la donna.

La nuova legge sanciva l’eguaglianza tra i coniugi infatti si passa dalla “potestà maritale” all’eguaglianza tra le due parti: Il marito, di fatto e di diritto, aveva avuto fino all’entrata in vigore delle nuove disposizioni  la “patria potestà” sulla moglie “vita natural durante” infatti la donna nasceva giuridicamente incapace e, di fatto, vi rimaneva anche dopo la maggiore età, di conseguenza doveva soggiacere alla volontà del padre padrone e, se “andava in sposa” a quella del coniuge/padrone. In un Paese dove l’analfabetismo riguardava il 70% degli italiani solo il 2% della popolazione femminile riceveva un’istruzione perché appartenente a famiglie nobili o abbienti (e liberali). Per la cultura consolidata da secoli di oscurantismo nei confronti della donna una simile aberrazione era imposta senza sollevare scandalo per questo è perdurata fino al 1975: per l’ordinamento giuridico italiano la “femmina” passava tutta la vita sotto tutela prima del padre e poi del marito e se non si sposava sotto a quella del parente più prossimo ovviamente maschio.  

I codici civile e penale considerano temporaneamente interdetti naturali coloro che non hanno compiuto la maggiore età e quindi assoggettati alla “patria potestà” o alla tutela legale di un terzo sempre maschio che ne curano gli interessi e li proteggono. Questa incapacità naturale per il maschio terminava al compimento della maggiore età mentre per la femmina continuava fino alla fine della sua vita.  

Ancora oggi mi chiedo come sia potuta sopravvivere una mostruosità giuridica del genere fino al 1975 che, al solo ripensarci, riesce ancora ad offende profondamente la mia dignità di essere umano femmina.

La riforma inoltre abbassava l’acquisizione della maggiore età da 21 a 18 anni, questo fu un semplice adeguamento alle normative vigenti negli altri Paesi europei e al diritto canonico che fissava la maggiore età al compimento del 16° anno modificata al 18° anno nel 2001 dall’allora Prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede l’allora cardinale Ratzinger in occasione delle cause intentate contro i preti pedofili in America.

La legge n. 898/70 riconosce alla madre il diritto di esercitare la patria potestà sui figli e al contempo le attribuisce gli stessi obblighi del padre – istruzione, educazione, mantenimento e assistenza morale dei minori – a questo punto bisogna porsi una domanda: come fa a mantenere i figli quando una donna di fatto è relegata al ruolo di domestica senza retribuzione, orari, ferie e contribuzioni?  L’obbligo alla collaborazione e nella gestione della famiglia tenta di prendere in considerazione anche l’eventuale lavoro casalingo della donna che maldestramente confligge con la realtà, tale aspetto mostra l’assenza del potere contrattuale della donna sia in caso di  separazione non consensuale fino al 1975 sia successivamente in caso di divorzio infatti priva di un reddito da lavoro si ritrova sul lastrico, il più delle volte con figli a carico e il marito che poteva  interrompere la convivenza e lasciare l’abitazione impunemente a differenza della donna che era soggetta  ad essere denunciata per abbandono del tetto coniugale infatti l’art. 144 del codice civile dava al marito la facoltà di fissare la residenza familiare a proprio piacimento, con obbligo della moglie di seguirlo ovunque. 

Con la legge sul divorzio viene abolito l’istituto della dote, beni che la moglie portava al marito come contributo agli oneri del matrimonio e che il marito gestiva a suo piacimento: il padre “cedeva” la figlia in “comodato d’uso gratuito” al nuovo padrone che riceveva in proprietà la dote. Attualmente le norme dispongono che, di regola, tutti i beni acquistati dai coniugi dopo il matrimonio cadono in ‘comunione’, con ciò sottolineando la gestione unitaria del patrimonio da parte di entrambi i coniugi prevedendo anche il regime di separazione dei beni o comunione legale/convenzionale. 

Un’altra importante innovazione ha riguardato le norme sulla separazione personale dei coniugi, dalla separazione per colpa alla separazione per intollerabilità della prosecuzione della convivenza. 

Un luminoso esempio di “sessismo” è il codice penale del 1930 (il c.d. Codice Rocco, dal nome del Ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Alfredo Rocco), norme rimaste in vigore fino a pochi decenni fa, le quali non solo non tutelavano sufficientemente la donna ma addirittura la poneva in netta inferiorità rispetto all’uomo.

Prendiamo ad esempio gli art. 559 e 560 c.p. che disciplinano il delitto di adulterio e di concubinato: lo Stato, non solo si attribuisce arbitrariamente il diritto di regolare faccende strettamente private ma lo esercita in maniera discriminatoria: la moglie adultera era punita per un singolo episodio; il marito, invece, poteva tradire la coniuge tranquillamente purché non tenesse l’amante “nella casa coniugale, o notoriamente altrove”.

Anche la Corte costituzionale è intervenuta per eliminare le norme palesemente discriminatorie infatti con la sentenza n. 126 del 1968 dichiarava l’illegittimità dei commi 1 e 2 dell’art. 559 c.p. perché confliggente con l’art. 29 della Costituzione motivando: “(…) alla stregua dell’attuale realtà sociale, la discriminazione [operata, ai danni della donna, dalla disciplina penalistica di adulterio e concubinato], lungi dall’essere utile, è di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia”.  

La stessa Corte interveniva un anno dopo e, con sentenza n. 147/69 sanciva l’illegittimità del comma 3 dell’art. 559 c.p. e dell’intero art. 560 c.p. per contrasto con l’art. 29 della Costituzione motivando:” (…) l’impronta di un’epoca nella quale la donna non godeva della stessa posizione sociale dell’uomo e vedeva riflessa la sua situazione di netta inferiorità nella disciplina dei diritti e dei doveri coniugali”.

Prima del 1975 molte mogli andavano a finire in ospedale o al cimitero a causa di rovinose cadute per le scale o urtavano contro pugni, calci, bastonate, sbattute al muro, lanci di oggetti vari e quant’altro per sua pura disattenzione o incuria.  La violenza contro la donna è tutt’oggi largamente praticata e tollerata: dalle forze dell’ordine che sottovalutano i contenuti delle denunce, persino dai vicini di casa e dai preti che ne fanno motivo di sacrificio dovuto per la salvezza dell’integrità familiare e per amore di un dio morto inutilmente per la salvezza dell’umanità visti i risultati. 

Nel periodo dal primo gennaio al 20 novembre 2022 sono stati registrati 273 omicidi (+2% rispetto allo stesso periodo del 2021), con 104 vittime donne (- 5% rispetto allo stesso periodo del 2021 in cui le donne uccise sono state 109).   In Italia, circa una donna su tre (per la precisione, il 31,5%) ha subito, nel corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale; il 77% delle vittime di stalking è donna; oltre un quarto degli omicidi dolosi commessi ogni anno ha, per vittima, una donna.

 La violenza fisica, sessuale, psicologica e morale non guarda l’età, la condizione sociale, il livello culturale, lo dimostra il fenomeno persistente del femminicidio. Il numero dei crimini consumati sui minori e sulle donne non è quantificabile in quanto le denunce sono di molto inferiori al dato reale, solo le mura domestiche conoscono le tragedie che accadono quotidianamente nelle famiglie, se potessero parlare ne avrebbero di storie da raccontare!

Nello scorso secolo si definiva ‘violenza carnale’ oggi ‘stupro’ ma i due termini indicano la stessa tragedia per chi subisce un oltraggio del genere. Si pensi solo al fatto che fino al 1996, penalmente lo stupro era ufficialmente considerato un delitto contro la morale pubblica e il buon costume, e non già contro la libertà, la dignità personale, e l’autodeterminazione sessuale della donna. Tra le norme del vecchio codice penale ve n’è una che rappresenta un’autentica crudele presa in giro imposta alla donna violentata, l’art. 544 c.p.  prevedeva il ‘matrimonio riparatore’: se il violentatore sposava la sua vittima, il suo reato veniva cancellato. Ancora ricordo il caso di Franca Viola che sfidò la mentalità consolidata rifiutando di sposare il suo violentatore, per la sua scelta giusta e soprattutto coraggiosa pagò un prezzo altissimo in sofferenze e umiliazioni.  l’istituto del matrimonio riparatore aggiungeva all’onta dell’offesa subita(normalmente) dalla donna la beffa di un matrimonio, il più delle volte, contratto dal reo al solo scopo di sottrarsi alla pena.

Il codice penale trattava anche il caso della moglie che subiva violenza sessuale da parte del marito, questi, almeno fino al 1976, veniva condannato solo per delitti minori (percosse, lesioni o minacce), ma non per stupro, purché si fosse contenuto a compiere atti sessuali ‘secundum naturam’: a voi lascio l’interpretazione di tale principio. 

Un vero lasciapassare per la violenza sulle donne era costituito dai delitti per causa d’onore: così, se il marito uccideva la moglie “nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale o nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia” (testo art. 587 c.p.) era punito - non già con la reclusione da 24 a 30 anni pena prevista per l’uxoricidio (artt. 575 e 577 co. 2 c.p.) – con la reclusione da 3 a 7 anni: una pena scandalosamente iniqua. 

Per quanto la dottrina più illuminata avesse da tempo evidenziato che il delitto d’onore costituisse una sorta di “(…) pena di morte ad iniziativa privata”, “frutto di una forma mentis improntata a retrivo egoismo e di concezioni ancestrali dell’onore”, il legislatore è intervenuto per espellere dal nostro codice le fattispecie in questione solo nel 1981: come la stessa relazione accompagnatoria al disegno di legge che portò a detta abrogazione rileva, “Si tratta di riforma da troppo tempo invocata e più che matura per la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica”, sicché la sua approvazione risulta essere “(…) un atto dovuto al cambiamento di cultura e di sensibilità etico-giuridica avvenuto nella nostra società”. 

Per cambiare il "fuori" occorre cambiare il "dentro".  Una sana educazione interiore e una costante pulizia mentale da influenze culturali negative sono alla base della propria armoniosa crescita personale e collettiva.

Leggi più giuste e codice rosso possono aiutare fino ad un certo punto poi tocca a noi partecipare attivamente al cambiamento culturale del Paese in cui viviamo perché avremo il mondo che abbiamo scelto.