La politica di coesione ha contribuito a migliorare il funzionamento del mercato unico incentivando la crescita e la competitività a lungo termine. Ha migliorato l'accesso a beni e servizi attraverso infrastrutture fisiche e digitali, aumentando la connettività. Inoltre, la politica di coesione ha stimolato le economie locali e l'attrattiva migliorando l'innovazione e l'imprenditorialità attraverso il sostegno alle PMI, nonché rafforzando il capitale umano mediante la formazione e l'istruzione.

La politica di coesione ha inoltre sostenuto la buona governance, la cooperazione e l'efficienza amministrativa. Ma questo non vuol dire che essa non debba essere riformata, anzi proprio per questo da mesi si sta discutendo di come riformarla per dare nuovo slancio dal 2028. Una vera politica regionale a livello UE è stata introdotta alla fine degli anni '80 e da allora ha ampliato la sua portata economica.

Negli anni '90, le regioni beneficiarie più grandi hanno visto i fondi rappresentare il 2-3 percento del loro PIL locale. Entro il 2010, molte regioni hanno ricevuto fondi UE superiori al 5 percento. A titolo di confronto, ciò supera le allocazioni che stati come Berlino e Sassonia-Anhalt ricevono dal regime di perequazione fiscale interstatale tedesco.

Nel corso degli anni, ha servito una serie di obiettivi diversi, dal supporto al recupero economico nelle regioni povere, al rafforzamento della competitività dell'UE alla lotta al cambiamento climatico e, più di recente, come cassa di guerra per rispondere a varie crisi a breve termine. Nel suo nucleo sancito dal trattato, tuttavia, la politica dovrebbe rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale riducendo le disparità economiche tra regioni a diversi livelli di sviluppo. Ma un recente studio dell’Istituto Jacques Delors, del giugno 2024, dimostra che la politica di coesione così com'è non riesce a supportare questo obiettivo fondamentale.

Raccogliendo dati sul reddito di oltre 2,4 milioni di famiglie, sono stati utilizzati nella ricerca dati su dove e quando sono stati erogati i fondi per la coesione negli ultimi 30 anni, analizzando chi esattamente beneficia del programma. L’analisi mostra che la politica di coesione ha un impatto positivo sulla produzione e sulla crescita regionali, ma soffre di due problemi fondamentali. In primo luogo, la politica di coesione mira a ridurre le disparità economiche tra grandi regioni europee. Tuttavia, molti dati mostrano che le specifiche disuguaglianze regionali affrontate dalla politica contribuiscono poco alla disuguaglianza complessiva in Europa e sono diminuite nel tempo. Molti soldi, quindi, semplicemente finiscono nei posti sbagliati.  In secondo luogo, raggiungono i soggetti sbagliati.

Mentre la spesa per la politica di coesione aumenta i redditi medi nelle regioni interessate, questi guadagni vanno quasi esclusivamente alle famiglie relativamente ricche. Invece di aiutare i bisognosi e chi si trova in difficoltà, la politica finisce spesso per arricchire le famiglie benestanti in aree che non sono particolarmente povere. Ecco perché una riforma ideale di questo strumento dovrebbe effettuare una più chiara differenziazione tra la spesa che affronta realmente la urgente necessità politica di ridurre le disuguaglianze regionali e sociali e gli investimenti mirati ad altri e più ampi obiettivi politici dell'UE.

Ciò include quattro elementi:

  1. una maggiore attenzione alle aree realmente svantaggiate; 
  2. una definizione più precisa delle sfide economiche locali;
  3. un migliore accesso ai finanziamenti per i piccoli comuni e le aziende; 
  4. un riorientamento delle risorse ora assegnate agli stati membri ricchi verso uno strumento a livello UE che sia maggiormente orientato a sostenere le priorità comuni, come gli investimenti in infrastrutture condivise e politica industriale. 

Si dovrebbero quindi perseguire due obiettivi principali.

In primo luogo, la spesa per la coesione dovrebbe essere riorientata in maniera più efficiente e quasi esclusiva verso le aree povere degli stati membri poveri e riformata per raggiungere parti più ampie della distribuzione del reddito.

In secondo luogo, le risorse attualmente assegnate a regioni relativamente ricche dovrebbero essere reindirizzate verso uno strumento di investimento a livello UE, dove possono più efficacemente mirare alle priorità dell'intera UE.

Inoltre, le risorse dovrebbero essere distribuite ad aree geografiche più piccole per garantire che i fondi evitino di finire in hub relativamente ricchi all'interno di regioni più povere se prese singolarmente. Ecco perché secondo alcuni forse la scelta migliore sarebbe quello di accentrare lo strumento in capo ad un organo centrale e semplificando i meccanismi e il numero dei fondi, così da eliminare le storture determinate dai troppi passaggi burocratici che i medesimi fondi dovrebbero affrontare.

L’idea della commissione e probabilmente anche del possibile neocommissario, Raffaele Fitto, sarebbe quella di creare un meccanismo assai simile al Next Generation Eu, che ha certamente mostrato una maggiore efficacia sia sui tempi che sulle risorse impiegate.

D’altra parte, da una riforma che migliori l’efficienza dei fondi, sarebbe auspicabile soprattutto per paesi come il nostro, che certo non hanno certi livelli di eccellenza nella gestione dei fondi europei, anzi. Una maggiore centralità nella gestione, come accaduto appunto per i fondi del Pnrr, potrebbe tagliare tutti quei passaggi intermedi, troppi, che provocano distorsioni nei processi esecutivi, rallentando e spesso inficiando del tutto, il completamento dei progetti legati agli stessi fondi. In capo a Raffaele Fitto, quindi, c’è la grande responsabilità di agevolare questa transizione, e visto come si è comportato in questi due anni con la gestione del Pnrr italiano, si può dire a ragion veduta che la presidente von der Leyen non poteva scegliere meglio.