Sono la vittoria, l’avventura e la forza. Sono lo splendore di tutto ciò che risplende” (Bhagavad-gita X.36)
“Per noi i guerrieri non sono quello che voi intendete. Il guerriero non è chi combatte, perché nessuno ha il diritto di prendersi la vita di un altro. Il guerriero per noi è chi sacrifica sé stesso per il bene degli altri. È suo compito occuparsi degli anziani, degli indifesi, di chi non può provvedere a sé stesso e soprattutto dei bambini, il futuro dell’umanità” (Toro Seduto)“Il buon guerriero non è aggressivo, il buon combattente non si lascia prendere dall’ira. Chi sa vincere non ha bisogno di dar battaglia, chi sa guidare gli esseri umani si mette al loro servizio” (Lao Tse)“Devo studiare la politica e la guerra in modo che i miei figli abbiano la possibilità di studiare la matematica e la filosofia, la navigazione, il commercio e l’agricoltura, per poter fornire ai loro figli la possibilità di studiare la pittura, la poesia e la musica” (John Adams, 2° presidente degli Stati Uniti)“Chi in cento battaglie riporta cento vittorie non è il più abile in assoluto. Chi non dà nemmeno battaglia e sottomette le truppe dell’avversario è il più abile in assoluto” (Sun-tzu)“Finché la guerra sarà considerata una cosa malvagia, conserverà il suo fascino; quando sarà considerata volgare, cesserà di essere popolare” (Oscar Wilde)
In un momento chiave del celebre film “Patton, il generale d’acciao” (F.J. Schaffner, 1970), un memorabile George C. Scott passeggia per il campo di battaglia a combattimento finito: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Volgendo lo sguardo a quello scempio, esclama: «Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita».
James Hillman, celebre psicoanalista statunitense, sceglie proprio questa scena, tanto spiazzante quanto rivelatrice, per introdurre il provocatorio tema del suo libro “Un terribile amore per la guerra” (Adelphi, 2004).
Per Hillman la guerra è incontestabilmente una pulsione primaria e ambivalente della nostra specie, dotata di una carica libidica non inferiore a quella di altre pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano, quali l’amore e la solidarietà. Ne consegue che, se di quella pulsione non si ha una visione lucida, ogni opposizione ad essa sarà vana.
Superando la retorica degli adagi progressisti ispirati al principio della «pace perpetua» teorizzato da Kant, Hillman risale al carattere mitologico e arcaico di tale ambivalenza, riassunto nell’inseparabilità di Ares, dio della guerra, e Afrodite, dea della bellezza e dell’amore. Ricorrendo a dettagliati rapporti dal fronte, a lettere di combattenti, ad analisi di esperti in strategia – oltre che a tutti gli scrittori e a tutti i filosofi che alla guerra hanno tributato meditazioni decisive, da Twain a Tolstoj, da Foucault a Hannah Arendt – Hillman dimostra una scandalosa verità: più che un’incarnazione del Male, la guerra è in ogni epoca – lo dimostra la contiguità tra le descrizioni omeriche e i reportage dal Vietnam – una costante della dimensione umana. O meglio, troppo umana.
In “Anatomia della distruttività umana” (1975), Erich Fromm sostiene invece una tesi diversa. Partendo da un’analisi antropologica, psicologica e sociale, l’autore nota come in certi gruppi sociali primitivi la distruttività fosse praticamente assente, e anche laddove questa si manifestava, ciò avveniva come conseguenza di particolari circostanze ambientali, quali un eccessivo affollamento o la competizione per l’approvvigionamento di risorse primarie determinata da uno stato di carenza materiale. Si configurava quindi come una mera lotta per la sopravvivenza.
La guerra potrebbe dunque essere considerata un costrutto prevalentemente culturale, poiché sono gli schemi sociali e ambientali, ai quali più o meno coscientemente aderiamo, che ci portano a ritenere giusto che certi interessi, che spesso si fanno pretenziosamente assurgere al rango di valori, possano essere conquistati, difesi e propagati seminando morte e distruzione.
Così Lev Tolstoj spiega le ragioni della guerra:
“Quando la mela è matura e cade, perché cade? Perché gravita verso la terra, perché il picciuolo si atrofizza, perché è disseccata dal sole, perché si è fatta pesante, perché il vento la scuote, perché il bambino che è di sotto la vuole mangiare?Niente è la causa.Tutto questo non è che concomitanza di quelle condizioni in cui si compie ogni fatto vitale, organico, elementare.E il botanico il quale ritiene che la mela cade perché il tessuto se ne è decomposto, o cose simili, avrà ragione quanto il bambino che, stando di sotto, crede che la mela sia caduta perché lui se la voleva mangiare e l’ha chiesto con una preghiera.Così avrà torto e avrà ragione chi dirà che Napoleone è andato a Mosca perché lo voleva e che vi ha trovato la sua rovina perché Alessandro ne voleva la perdita, come avrà torto e avrà ragione chi dirà che una montagna che pesa milioni di libbre, ed è minata, è caduta perché l’ultimo lavoratore le ha dato l’ultimo colpo di piccone.Negli avvenimenti storici, e in particolare nelle guerre, gli uomini cosiddetti grandi sono etichette che danno il titolo all’avvenimento e, come le etichette, meno che mai hanno rapporto con l’avvenimento stesso. Ogni loro azione, che ad essi sembra volontaria, nel senso storico è involontaria, e si trova legata a tutto il corso della storia ed è determinata da sempre. L’uomo vive consciamente per sé, ma serve come strumento inconscio per il conseguimento dei fini storici dell’umanità in generale. Quanto più in alto sta l’uomo sulla scala sociale, a quante più persone egli è legato, quanto più potere ha su altri uomini, tanto più evidenti sono la predeterminazione e la necessità di ogni suo atto” (L. Tolstoj, Guerra e Pace, 1869).
Uno studio di qualche anno fa condotto dallo psicologo A. Ciacci sulle origini della guerra (La Guerra, Homolaicus, tesi di laurea, 2004) sintetizza così le varie teorie sull’argomento:
“Nonostante la storia dell’uomo sia millenaria, l’umanità non sembra aver attraversato nessun periodo prolungato senza guerre.
La guerra, con i suoi orrori e le sue crudeltà, sembra appartenere al patrimonio genetico della specie umana. È un poema sulla guerra, quella fra Greci e Troiani, uno dei primi grandi libri della civiltà occidentale, l’Iliade, e anche oggi, che abbiamo ormai superato la boa del terzo millennio, la guerra divampa in varie parti del globo, guerre fra nazioni, ma anche guerre civili, interne ai singoli stati.
Eppure l’aspirazione alla pace fa ugualmente e da sempre parte dei sogni dell’uomo.
Perché allora l’uomo vuole il bene e fa il male? Perché la storia umana è un succedersi ininterrotto di atrocità, un “immenso mattatoio”, secondo la definizione datane da Hegel nella sua Filosofia della storia? Perché la guerra?
Freud rispose a quest’ultima domanda affermando che nell’uomo c’è un’ineliminabile spinta aggressiva e distruttiva, che solo l’incessante processo di civilizzazione può tentare di tenere a bada.
La guerra genera orrori, crudeltà, stermini agghiaccianti e inauditi, fuori della morale condivisa, ma si rivela spesso anche un’occasione in cui gli uomini mettono in mostra le loro qualità migliori: la fratellanza, il cameratismo, la solidarietà, la pietà, l’altruismo, la soccorrevolezza, il coraggio. Spesso nell’esistenza di un uomo la guerra costituisce un’esperienza unica, fortissima, indimenticabile, un’uscita da uno stato di innocenza infantile e dall’ipocrisia diffusa nella vita sociale collettiva.
E, ritornando nell’ambito della psicologia, talora possono affacciarsi alla ribalta della Storia, favoriti da un preciso contesto economico e culturale, leader animati da una volontà di potenza distruttiva, dalla personalità gravemente disturbata, capaci di convincere le masse, tramite la propaganda, della giustezza dei loro propositi. Di personaggi sanguinari e affascinanti allo stesso tempo, ne incrociamo di continuo, sfogliando qualsiasi manuale di Storia: Hitler, Stalin, Gengis Kahn, Caligola, Nerone, Tamerlano…
La guerra riconosce quasi sempre un meccanismo collaudato: un gruppo o una nazione si coalizzano contro un nemico esterno cui vengono attribuiti tutti i vizi e i difetti. Ci si purifica dei propri aspetti inaccettabili, uccidendo la vittima sacrificale.
E, spiace ammetterlo, per un imperscrutabile mistero della natura umana, persino persone colte e capaci di affetto autentico nei confronti dei propri familiari e della cerchia degli amici, riescono a macchiarsi di crimini infami nei confronti dell’umanità, si lasciano sedurre dal fascino della violenza. È il caso, per esempio, di molti gerarchi nazisti, affabili nella quotidianità, che leggevano buoni libri e ascoltavano buona musica, capaci poi di pianificare freddamente lo sterminio di esseri umani innocenti.