La giustizia non è di questo mondo! Ho sentito questa battuta di pessimo gusto troppe volte durante la mia esistenza. La reputo una delle più squallide manifestazioni di ipocrisia per giustificare le piccole e grandi ingiustizie che vengono consumate ogni giorno non solo nei tribunali ma in ogni dove. L’Italia è un paese particolare: abbiamo un mare di leggi nel quale la verità annega per superficialità, disinteresse, opportunismo o per tutelare lucrosi interessi illegittimi.

Dopo un processo durato 4 anni finalmente si è arrivati alla fase conclusiva, i pubblici ministeri hanno chiesto pene severe per il gravissimo e continuativo inquinamento prodotto dalla diossina emessa per anni dagli impianti dell’Ilva.

Per i fratelli Fabio e Nicola Riva, proprietari lombardi dell’Ilva, sono state chieste pene di 28 e 25 anni; 28 anni anche per Luigi Capogrosso e Girolamo Archinà rispettivamente ex direttore dello stabilimento e ex responsabile delle relazioni istituzionali per la società, quest’ultimo in particolare, con i suoi uffici, ha garantito per anni ai Riva di realizzare profitti senza che emergesse la gravità del processo di inquinamento dei territori e dei danni alla salute pubblica. E’ stata predisposta la confisca (perdita definitiva) degli impianti dell’area a caldo e il sequestro di 2 miliardi e 100 milioni di euro a titolo di compensazione per l’illecito profitto ricavato dall’Ilva S.p.A.; Riva Fire S.p.A. e Riva Forni Elettrici S.p.A.

Divenuti nel 1995 proprietari unici dell’acciaieria di Taranto, i Riva in più di vent’anni non hanno pensato di investire sulla decarbonizzazione e ammodernamento degli impianti adottando lo stesso “stile imprenditoriale” dei Benetton: si sfrutta la situazione fin che dura, chi ci rimette peggio per lui. Nel 2018 i proprietari decidono di mollare il problema al gruppo franco-indiano che acquisisce il complesso industriale (ponendo condizioni e una clausola di salvaguardia penale per gli amministratori) per dismetterlo e togliersi dai piedi la concorrenza contribuendo al processo di destrutturazione del tessuto produttivo italiano iniziato con le privatizzazioni a prezzi di saldo negli anni ’90 del patrimonio pubblico di altissimo livello frutto del lavoro e del denaro degli italiani.

Dalla lunga lista di richieste di pene comprese tra e 2 e i 20 anni si evince che i Riva hanno utilizzato vari consulenti e fiduciari esterni per garantirsi la continuità produttiva senza avere problemi penali. Per i capi area e dirigenti dell’Ilva sono state richieste pene dai 17 ai 20 anni, in particolare per l’ex Prefetto di Milano Bruno Ferrante - che nel 2012 si era occupato della società per qualche mese - i PM hanno chiesto 17 anni.

In questa triste e vergognosa vicenda non poteva mancare la frangia politica: per Nichi Vendola ex governatore della Regione Puglia sono stati chiesti 5 anni per concussione a danno dell’ex direttore generale dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato. Sono stati chiesti 4 anni per alcuni ex funzionari provinciali ritenuti colpevoli di aver fatto pressioni sui alcun dirigenti per autorizzare lo smaltimento dei residui pericolosi all’interno delle aree dello stabilimento.

È invece molto significativa la richiesta di 17 anni per Lorenzo Liberti ex consulente della Procura che per denaro ha stilato una perizia che ha permesso all’Ilva di essere scagionata dall’accusa di inquinamento delle aree limitrofe gli impianti che ha cagionato danni alla salute pubblica, all’allevamento e all’agricoltura. I consulenti infedeli sono la peggiore calamità che può abbattersi sulla verità e sulla giustizia: questo individuo ha sacrificato vite umane, territori e animali per 10.000 euro.

Sono stati chiesti 7 anni per l’avv. Francesco Perli che, in qualità di rappresentante legale dell’Ilva, aveva manipolato gli incaricati ministeriali dell’istruttoria per la concessione dell’autorizzazione integrata ambientale che fu per questo concessa nel 2011.

La “santa prescrizione” ha salvato 9 imputati tra i quali l’ex sindaco di Taranto per omissione in atti d’ufficio per non aver fatto nulla pur essendo a conoscenza della situazione. Si sono salvati i tecnici ministeriali che hanno omesso la verità nelle loro relazioni favorendo l’Ilva. Anche l’ex ispettore della Digos Aldo De Michele è stato graziato dalla prescrizione, era imputato per aver rivelato al potente faccendiere Archinà segreti istruttori relativi a fasi d’indagine attivate dall’ex procuratore Franco Sebastio.

In particolare mi ha colpito la sensibilità di questo magistrato che ha guidato il pool di PM con coraggio e abnegazione e che si è battuto per difendere le vittime di quello scempio e ha ricercato la verità senza mai cedere alle lusinghe o alle pressioni guadagnandosi l’appellativo di “giudice talebano” . L’esperienza di questo procuratore e persona retta dimostra l’esistenza di un muro di gomma che tutto respinge, un muro fatto di compiacenza e condivisioni, complicità e vigliaccheria, menzogne e corruzione, cinismo e profitto ma soprattutto mette in evidenza lo sfregio per gli esseri umani e la natura. Le amare considerazioni esposte da questo magistrato devono far riflettere seriamente tutti noi, abbiamo di fronte un futuro difficile, ci aspettano cambiamenti radicali, occorre riscrivere il progresso utilizzando il patrimonio di esperienza di chi si è occupato onestamente della difesa dell’ambiente.

Nella storia dell’ex procuratore di Taranto si condensano tutte le deviazioni che affliggono il modus cogitandi e agendi della classe politico/economica del Paese. Risale al lontano 1982 la prima condanna per inquinamento a carico dell’acciaieria, da allora i reati sono andati moltiplicandosi e sovrapponendosi per l’immobilismo di chi doveva provvedere per tempo e non lo ha fatto. Tutti ne erano informati, anche il Parlamento infatti vi sono atti depositati presso la commissione parlamentare d’inchiesta ma nessuno ha osato mettersi contro gli interessi dei trasgressori. La catastrofe di Taranto è un dato certo, una sentenza non può modificare quel museo degli orrori, può solo sancire se vi è un reato e indicare gli “eventuali” responsabili ma in Italia tutto è relativo basta avere soldi e amici fidati in politica. Le prove certe di tale scempio le ha sempre prodotte e fornite lo Stato: sono le numerose leggi con le quali il Parlamento ha scelto di tutelare gli interessi della proprietà a discapito della salute dei cittadini e dell’ambiente.

Oggi siamo obbligati a riconvertire il sistema economico per disattivare il processo di degrado climatico ed ambientale del pianeta ma con una forma mentis come quella italiana io la vedo dura.  Se i cittadini non decidono di rinunciare alla mentalità diffusamente mafiosa che ha ammorbato la vita sociale, politica e soprattutto economica di questo Paese non si va da nessuna parte. Oggi si sta svolgendo il rito per l’insediamento di un governo commissionato dai “poteri forti” che, a parte gli eleganti ma sterili discorsi di circostanza, garantirà loro la continuità, quella continuità che ha prodotto il disastro dell’Ilva, del ponte Morandi, delle terre dei fuochi, della scissione del nord dal centro-sud usato come zerbino e discarica e via narrando. Dobbiamo prendere atto che oggi i partiti non rappresentano più le istanze legittime dei cittadini, si sono trasformati nella rappresentanza dei comitati d’affari che operano liberamente su tutto il territorio utilizzando ogni mezzo, lecito ma il più delle volte illecito, per raggiungere i loro obiettivi senza dover rendere conto ad alcuno. O ci rassegniamo a vivere sotto padrone come gli schiavi o ci decidiamo a crescere e ci riprendiamo la nostra vita senza rinunciare ai nostri principi ma il prezzo da pagare per la nostra sventatezza e superficialità sarà molto alto perché sono le istituzioni deviate il grave pericolo per i cittadini onesti.