Gli anni ottanta: facile oggi ricordarli come un periodo “mitico”. Tutto lo è, lo diventa, per costruirvi su articoli, libri, servizi filmati. Gli anni del “liberi tutti”, del “tutto è permesso”, prodromici all’etica della libertà individuale, dove ogni diritto è sacro, tranne, guardando alla cronaca, la vita umana. In effetti, fu un decennio di apparente spensieratezza: svaniva quell’aria “di piombo” tipicamente seventies e, se pure esistevano ancora barriere e quel muro di Berlino che cadrà appunto nel 1989, venivano annunciate le solite magnifiche sorti progressive. La storia dovrebbe averci insegnato che non esiste nulla di scontato, nessuna felicità è garantita e il dolore è sempre dietro l’angolo, ma tant’è, insistiamo a volercene convincere, ne abbiamo bisogno.

Anche il reparto dell’intrattenimento si apprestava a grandi svolte e la musica italiana, in particolare, pur mantenendo saldi degli ancoraggi a una certa melodia, strizzava l’occhio ai nuovi venti, in arrivo, tanto per cambiare, dal mondo anglosassone e americano. Il rock ancora imperversava, ma presto i ritmi urban e nuovi arrangiamenti elettronici avrebbero stravolto il gusto popolare. In questo marasma, l’ambiente musicale italico galleggiava a suo modo. Vecchi artisti dimenticati iniziavano dei felici riciclaggi, un nome per tutti: Gianni Morandi. Altri erano rimasti sulla cresta, altri ancora avevano abbandonato il campo o non c’erano più; o si sviluppavano generi locali, come il neomelodico alla napoletana, i cui divi, tranne alcune eccezioni come Gigi D’Alessio, sono tali finché non varcano i confini regionali. Per la sintetica storia delle nostrane storie a sette note, rimandiamo alla lettura di alcuni capitoli del libro “Columbus II”, di chi scrive (Carmen Gueye).

Esisteva, nondimeno, una nicchia sprezzata dal mainstream: cantanti “puri”, non autori, dotati magari di una voce apprezzabile e di padronanza della scena, che avevano respirato l’aria dei quartieri alti per qualche istante, presto ricacciati nell’anonimato. Costoro si ritrovavano costretti a ingaggi da sagra paesana o, addirittura, in terra straniera per qualche evento di agenzie di viaggio o in alberghi a forte presenza italiana, o ancora, per  occasioni disparate, cui i loro impresari riuscivano ad aggregarli. In questo senso, è significativa la visione del film di Carlo Verdone, manager del sottobosco dello spettacolo in “C’era un cinese in coma”.

Terminiamo qui un preambolo che ci porterebbe lontano, ma sufficiente a presentare la protagonista della nostra storia: Graziella Franchini, in arte Lolita. Per ricordarsi di lei occorrono alcuni requisiti fondamentali: avere più di  cinquanta…cinque anni o giù di lì, una certa dimestichezza con la vecchia musica leggera italiana, buona memoria e culto dei dettagli. Perché Lolita può essere considerata appunto un dettaglio, nell’immaginario edificio del pop dello stivale, un decoro: piccola cosa che può attirare l’attenzione dei più attenti, come un quadretto in un museo pieno di opere di grandi pittori, che tuttavia c’è, e riesce a  fermare i curiosi. E, speriamo, attirerà i più giovani.

Curiosi eravamo e siamo tuttora. Fu così che, quando ascoltammo e leggemmo della morte violenta di questa giovane donna, fermammo la nostra attenzione.  E’ domenica 27 aprile 1986, il giorno dopo il disastro di Chernobyl, dunque non si parla d’altro, in effetti: tuttavia la notizia di cronaca nera non passa inosservata, per molti di noi, e ci scorre in memoria la parabola di questa biondina dolce, dalla voce simile a quella Tammi Terrell.

Graziella, classe 1950,  dopo anni di buon successo, e un famoso Carosello/tormentone, pubblicità di un liquore allora molto famoso - una popolarità dovuta alle eccelse doti vocali, come pure al suo sex appeal - aveva origini venete, ma da bambina si era trasferita con i genitori e due sorelle a Bollate. Gli inizi sono in parrocchia, dove viene notata da un talent scout, figura che ai tempi “batteva” ogni luogo per trovare voci nuove da lanciare. Piccola, sinuosa, bionda e ammiccante, vince manifestazioni, compare in programmi della RAI ( allora emittente monopolista), fino alla grande occasione, il festival di Sanremo.

Sarà che il festival, ai tempi, conosceva il suo massimo declino, sarà stato il fatto di cantare in coppia con Claudio Villa, in disgrazia lui pure, scalzato dagli urlatori, sempre rabbioso e inacidito verso chi non apprezzava più il suo repertorio da operetta romanesca e i suoi atteggiamenti da mandrillo, fatto sta che la canzone non fu ammessa alla finale. Per Lolita quell’espulsione non si trasformò in successo, come accadde a Drupi, ultimo classificato, ma ripagato dalle vendite dei dischi. Lei precipitò nel buio dell’oblio artistico.

Ci dicono che la ragazza fu penalizzata dall’infelice storia d’amore con un uomo cui tanto aveva dato anche in termini economici, ricevendone maltrattamenti; che la sua generosità, in effetti, era tale da divenire eccessiva e farle perdere di vista gli obiettivi utilitaristici; che era interessata più all’arte canora che ai guadagni e non fosse disposta a compromessi. Sia come sia lei, che non desiderava cambiare mestiere come altri nella sua condizione fecero, si arrangiò con scritture minori: sagre di paese, feste di partito, villaggi vacanze. Nel 1984 l’amico Mario Tessuto le dona un suo pezzo, orecchiabile ( in stile Ricchi e Poveri), arriva qualche apparizione televisiva e sembra che il periodo nero sia finito, ma Lolita arranca sempre. Dopo tanto penare, la cantante si ritrova in Calabria, dove un manager locale le procura ingaggi che le permettono di vivere. A Lamezia Terme la donna si trova bene e decide di fermarvisi, anche perché innamorata del suo ginecologo, Michele Roperto, divorziato con un figlio, appartenente a una famiglia del luogo molto in vista.

La storia sembra restituirle quell’appagamento perso da tempo, frenandone l’irrequietezza sentimentale che, secondo i maligni, aveva dato nell’occhio, in un profondo sud ancora ostaggio di pregiudizi.

Quella domenica Lolita è attesa in serata per una esibizione abbastanza lontano da Lamezia: precisa e professionale com’è, quando non la si vede comparire… scattano le ricerche? Non precisamente. Ricordiamo sempre che non si utilizzano ancora i telefonini, tuttavia una chiamata da un bar era possibile per appurare dove fosse. Ma dobbiamo arrivare alla tarda mattinata del giorno dopo perché il manager e un amico, forse suo ex, allertati dal ginecologo, si affaccino al residence Marinella, Isola Sud, dove la donna alloggia in un monolocale e la trovino, massacrata, sul pavimento del bagno.

Qualche giornale azzarderà che si tratta di una violenza da “mostro di Firenze”, poiché, oltre alle numerose ferite da percosse e tagli, c’è anche un bottiglione infilato nella vagina di Graziella ( una modalità di oltraggio simile a quella del delitto di Rabatta, 1974, attribuito appunto al mostro, quando la vittima femminile fu violata con un tralcio di vite).

Gli svelti necrologi che le dedicano i giornali citano soprattutto il pezzo “Come le rose”, che Lolita aveva cantato in versione moderna,  riadattata dall’originale di molti anni prima ( e verrà poi ripreso anche da Patti Pravo): un brano tuttora considerato il suo massimo successo, anche se ne contiamo almeno un altro paio molto popolari e canticchiati.

Sarebbe facile affermare che gli accertamenti e le indagini furono mal condotti: lo sentiamo ancor oggi, con le tecniche strabilianti a disposizione, figuriamoci allora. Il risultato è che finiscono in carcere la bella studentessa di medicina Teresa Tropea e sua madre, Caterina Pagliuso.

Teresa sarebbe la fidanzata di Roperto, ma anche no: ancora oggi, le versioni confliggono. Tutto si contraddice, come in ogni caso che si rispetti. Si erano già lasciati, il dottore teneva i piedi in due scarpe, ovvero, da bravo maschio latino, serbava in caldo la futura moglie, e intanto si divertiva con la disinvolta starlette venuta dal nord? E dunque Teresa e la Pagliuso, che qualcuno vorrebbe parente di boss della ‘Ndrangheta, hanno lavato l’onore offeso?

Il processo si concluderà con la piena assoluzione delle due donne. Un testimone ritratta un presunto avvistamento; Roperto ammorbidisce di molto la sua testimonianza contro madre e figlia, che in un primo tempo aveva accusato di aver già picchiato selvaggiamente la “rivale” al residence, con lui che guardava senza far nulla, mentre poi parlerà solo di un alterco.

Abbiamo tre fonti a disposizione, sostanzialmente, oltre qualche breve articolo: la puntata che a lei dedicò Telefono Giallo, nel 1988 ( quando la vicenda giudiziaria era ancora in corso); un capitolo televisivo della serie “ Il Giallo e il nero”, del 2013, in cui si auspica la riapertura del caso, grazie alle nuove tecniche; e un instant-book del giornalista del Corriere della Sera Cesare De Simone, anch’esso uscito prima delle sentenze, “Il destino di Lolita”,  molto duro verso la Tropea e la Pagliuso.

Non possiamo che rimandare alla visione dei primi due e, per i fortunati che riuscissero a trovarlo ( come è capitato a noi) alla lettura del terzo.

Si noterà, come in altri casi, primo fra tutti quello del Mostro di Firenze, che le fonti non concordano quasi mai su nulla, compresi particolari nevralgici, tra i quali citiamo uno dei più rimarchevoli: in televisione, nelle famose “ricostruzioni” in video, la notte prima di essere uccisa, la sventurata artista chiama più volte, dal telefono sul comodino, l’amante  Roperto, sperando che lui venga a farle compagnia, mentre accanto una rumorosa festa le impedisce di dormire ( richiesta che il medico non accoglie). Per altro verso, l’instant – book si fa un dovere di informarci che nel residence non c’erano telefoni in camera…

Vogliamo che Graziella/Lolita non sia dimenticata. Non c’erano reality, talent, programmi revival, allora; altrimenti, ne siamo certi, la voce squillante e lo sguardo accattivante di Graziella Franchini avrebbero fatto nuovamente brillare la sua stella.