Mattarella alla commemorazione del 60° anniversario del disastro del Vajont, una tragedia ampiamente annunciata
In occasione del 60° anniversario del disastro del Vajont, Sergio Mattarella si è recato nei luoghi della tragedia ed ha deposto una corona in memoria delle vittime al cimitero di Fortogna. Successivamente, è intervenuto alla cerimonia commemorativa nel corso della quale è intervenuto per pronunciare il seguente discorso:
Siamo qui oggi, con il Presidente della Camera dei deputati, il Ministro che rappresenta il Governo, i Presidenti delle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto, i Sindaci di Longarone, Erto e Casso e Vajont, e tanti altri Sindaci delle due Regioni presenti.Siamo qui a rendere memoria di persone. Le persone che hanno abitato queste vallate. Quelle che sono morte il 9 ottobre 1963. Quelle che sono sopravvissute. Quelle che hanno dovuto lasciare le loro case e quelle che hanno lottato strenuamente per ricostruirle, per rimanervi.Storie di luoghi che non vi sono più, storie di luoghi che la tenacia degli abitanti ha voluto far rivivere dopo la tragedia. Insieme con Longarone, Pirago, Maè, Villanova e Rivalta, Frasèin, Col delle Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè, Erto e Casso.Oggi ci troviamo in un Parco, quello delle Dolomiti Friulane che, nella bellezza di questi luoghi, doverosamente, dedica percorsi alla memoria. Siamo di fronte a due quadri: quello delle Prealpi Carniche. E la diga, creazione artificiale. Entrambi, oggi, silenti monumenti alle vittime, a quelle inumate nei cimiteri, a quelle sepolte per sempre nei greti dei torrenti, sulle pendici: donne, uomini, bambini. Quasi cinquecento bambini.Immenso sacrario a cielo aperto che si accompagna al Cimitero di Fortogna, mausoleo nazionale, dove è stato significativo, poc’anzi, vedere 487 bambini in ricordo di quelli morti allora.Riflettiamo: la frana, la sparizione, nel nulla, di un ambiente, di un territorio, di tante persone. La cancellazione della vita. Sono tormenti che, tuttora - sessant’anni dopo - turbano e interrogano le coscienze.Il generale Giampaolo Agosto, allora giovane ufficiale del 6° Reggimento artiglieria da montagna, intervenuto con gli uomini al suo comando, nelle ore immediatamente successive alla tragedia, ha ricordato, in queste settimane, che i suoi soldati, di fronte a tanto orrore, avevano gli occhi fissi nel vuoto.Vogliamo, oggi, sforzarci di immaginare di specchiarci anzitutto negli occhi di coloro che non vi sono più; che, quando giunsero gli alpini, non c’erano più. Negli occhi dei soccorritori. Negli sguardi severi dei sopravvissuti. Negli occhi di chi oggi è, qui, depositario di questi territori. Per poter dire che la Repubblica non ha dimenticato.Per poter dire che - come ha esortato il Presidente Zaia poc’anzi - riuscire ad assicurare condizioni di sicurezza e garanzia di giustizia - come richiede il buon governo - rimane obiettivo attuale e doveroso nella nostra società. Perché occuparsi dell’ambiente, rispettarlo, è garanzia di vita.Per non capitolare a quello che il Presidente Fedriga ha chiamato “desiderio cieco dell’uomo di piegare a proprio piacimento la natura per guadagnarne il massimo profitto”. A un intervento dell’uomo che si traduca in prevaricazione, corrisponde la violenza della natura. Quella violenza che la sapienza delle popolazioni locali, in antica intimità con l’ambiente, sa temere e da cui cerca riparo, sapendo come va rispettata la natura.Il disastro del Vajont, come sappiamo – e come è stato ricordato - venne paragonato a quello determinato dallo spostamento d’aria derivante dall’esplosione di un ordigno nucleare.Le Nazioni Unite hanno classificato questo evento come uno dei più gravi disastri ambientali della storia che sia stato provocato dall’uomo. Per questa ragione, il 9 ottobre, è stato indicato dal Parlamento “Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’uomo”.La tragedia che qui si è consumata reca il peso di gravi responsabilità umane, di scelte che venivano denunziate, da parte di persone attente, anche prima che avvenisse il disastro. Assicurare una cornice di sicurezza alla nostra comunità significa saper apprendere la lezione dei fatti e saper fare passi avanti.L’interazione dell’uomo con la natura è parte dell’evoluzione della natura stessa. Perché l’uomo fa parte della natura, ma non deve diventarne nemico. Non si tratta di un tema di esclusivo carattere ecologico. Ce lo ha rammentato, pochi giorni addietro, anche Papa Francesco con la sua ultima esortazione.Si tratta di saper porre attenzione e saper governare, con lungimiranza, gli squilibri che interpellano, mettendo in discussione, l’umanità e i suoi destini. Sui luoghi della tragedia, il giorno dopo svettava, solitario, a Pirago, il campanile della Chiesa di San Tomaso apostolo.Il tempo non diluisce il dolore, ma quel campanile, oggi restaurato, appare, nella sua solitudine, quasi simbolo della resilienza di questo territorio e della sua gente. Gente di paesi che, come poc’anzi, al cimitero di Fortogna, ricordava il Sindaco Padrin, ha voluto tornare alla vita. Di chi - insieme allo strazio della perdita dei propri cari, della propria casa, dei propri averi – si è trovato di fronte a una scelta angosciante: andarsene o “resistere”. Esperienze che ritroviamo nei dialoghi di un sopravvissuto di Erto, Mauro Corona, nel suo “Quelli del dopo”.Quel che li ha guidati - e che deve muovere anche noi - è l’ansia di riconciliarci con il mondo che ci ospita, con la natura e l’ambiente in cui siamo immersi. Perché i disastri cambiano i luoghi ma il futuro delle popolazioni dipende anche dalla resistenza di coloro che, come i valligiani di questi luoghi, non si sono arresi.Un altro impegno si avverte, irrinunziabile. Quello della memoria che i cittadini di questi Comuni continuano a coltivare e che tutti avvertiamo come compito della Repubblica.Anche per questo motivo ritengo che sia non soltanto opportuno ma doveroso che la documentazione del processo celebrato a suo tempo sulle responsabilità rimanga in questo territorio.Quella documentazione era stata, necessariamente, raccolta nei luoghi del giudizio penale perché aveva allora una finalità giudiziaria. Conclusi, da tanti anni, i processi, oggi riveste una finalità di memoria. Appunto per questo, è stata inserita dall’UNESCO nel suo Registro della Memoria.E quel che attiene alla memoria deve essere conservato vicino a dove la tragedia si è consumata. Per rendere onore alle vittime del Vajont e per riceverne un ammonimento per evitare nuove tragedie.
La tragedia del Vajont è riassumibile così, in poche parole. Venne realizzata una diga che dal punto di vista ingegneristico era un capolavoro, tanto quanto era un assurdo il progetto in sé. Infatti l'opera serviva a creare un invaso alle pendici di un monte, il Toc, che nel dialetto locale significa franoso. Non solo. Si dette il via all'opera nonostante sul fianco del monte che guardava all'invaso fosse presente, visibile a vista, una frattura nel terreno lunga centinaia di metri.
Una volta che l'impianto entrò in funzione, serviva a produrre energia elettrica, l'acqua contribuì ad accelerare la frana del fianco del Toc che si riversò nel bacino, provocando un'ondata gigantesca che andò a sbattere sul fianco del monte di fronte, superando poi lo sbarramento della diga e riversandosi sui paesi a valle, a partire da Longarone, che vennero letteralmente spazzati via, ricoperti da una coltre di fango.
Quella del Vajont fu una tragedia annunciata che non è neppure servita di esempio ad evitarne di successive, ultima delle quali il crollo del Ponte Morandi a Genova, dovuto all'incuria di chi avrebbe dovuto effettuare la manutenzione dell'opera, che non è stata fatta nonostante si sapesse che fosse necessaria e urgente.
Crediti immagine: Ufficio Stampa Quirinale