(di Federico Compagno)  Come ogni anno si avvicina il 25 Aprile, una data molto particolare per ciò che rappresenta e per il significato che gli viene attribuito.

Come ogni anno, nei giorni precedenti, l’opinione pubblica si divide in merito alla legittimità di questa commemorazione, sovraccaricandola di un significato politico che contribuisce in parte a snaturare quello che forse dovrebbe essere il suo mandato originario.

Questo dibattito è interconnesso con quello del giorno della memoria e altrettanto con altre feste nazionali colorate di simboli politici che, per la natura degli stessi, sono portati a creare ingroup e outgroup.

Nel momento stesso in cui il significato di queste feste viene trasportato sul piano dell’ideologia politica ,la faziosità creatasi tra i sostenitori di un colore piuttosto che l’altro esclude automaticamente il campo di riflessione intimo e collettivo intrinseco alla data.

Queste giornate divengono motivo di scontro e dibattito ,quasi mistico e spirituale se non talvolta fisico, fra chi ci crede e chi non ci crede, fra chi è a favore e chi è contrario, fra chi si indigna e chi si indigna per l’indignazione.

Come si può dunque riportare queste date così importanti dentro i confini dei veri significati essenziali da ricordare e attualizzare ogni giorno?

Hannah Arendt nel suo testo [1], tanto popolare quanto ancora controverso per la complessità della tematica e il rischio di una lettura faziosa e distorta, parla della banalità del male negli uomini. 

L’autrice colpisce nel profondo l’anima della giuria del tribunale di Gerusalemme e ogni lettore che ha la fortuna di poter leggere le sue righe. Quello che sconvolge nel scorrere le sue parole è avvertire la totale inesistenza di confine fra vittime e carnefici, la fluidità con la quale l’innocente diventa colpevole, la ferocità con la quale l’agnello può diventare lupo. Questo può accadere a tutti, nel momento sbagliato e nel posto giusto. Senza che nessuno sia nato con addosso lo stemma del bene o del male.

La controversa lettura di quest’opera a lungo criticata soprattutto nel mondo ebraico, sembrerebbe quasi voler giustificare il comportamento di Eichmann così come quello di migliaia di soldati SS, tuttavia, se ancora una volta ci si sforza di non entrare nel merito politico e squisitamente storico, appare chiaro come l’autrice si serva dei fatti accaduti come strumento per esplicare una teoria piuttosto veritiera.

L’essere umano è perfettamente in grado di compiere gesti atroci solamente perché situato in un contesto estremamente favorevole. Arendt, nella Banalità del Male, descrive spesso Eichmann come uno qualsiasi di noi che si è trovato a svolgere dei compiti assegnati, deumanizzando completamente le vite martoriate, dissociandosi dalla realtà e lui stesso vittima politica e emotiva del terzo reich. 

Risulta molto facile varcare la sottile linea che si presta a strumentalizzazioni politiche intente a definire quest’opera quasi negazionista e filonazista, come per altro è successo e come testimonia la biografia dell’autrice, più volte minacciata.

Tuttavia, queste righe condensate di significati scomodi e taglienti, non trattano unicamente di nazismo, non parlano dell’atrocità dello stesso, ma bensì raccontano le banalità del male di tutti gli uomini, in tutte le epoche e con tutte le ideologie politiche.

Psichiatri e psicologi sociali di tutto il mondo si sono impegnati nel dopoguerra a trovare spiegazioni credibili e logiche a cotanta violenza che, per la sua natura efferata e per i numeri così importanti, ha scosso nell’immediato la coscienza di molti. Ho utilizzato la parola “immediato” e limitato il campo di partecipazione a “molti” perché, per quanto possa sembrare assurdo, non tutti si erano accorti di ciò che avevano fatto e sentivano di dover ripulire la loro coscienza e molti di quelli che invece soffrivano per ciò che era accaduto hanno lottato duramente con la propria mente per dimenticare un ricordo troppo sofferente a livello psichico.

L’esperimento di Philip Zimbardo [2] volto a indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza e quello di Stanley Milgram [3], il cui obiettivo era lo studio del comportamento di soggetti ai quali un'autorità ordinava di eseguire delle azioni in conflitto con i valori etici e morali dei soggetti stessi, sottolineano entrambi che un individuo perfettamente lucido e moralmente integro è in grado di arrecare un danno fisico e psicologico a una vittima sulla base di un ordine impartito secondo alcune modalità e spinto dal senso di appartenenza a un gruppo.  In entrambi i casi, vittime e carnefici si deumanizzavano a tal punto da perdere cognizione del proprio Sé individuale diventando guardie e detenuti nel primo esperimento; mentre nel secondo i carnefici spinti dagli ordini impartiti da un’autorità severa e rigida perdevano totalmente consapevolezza del dolore provocato nella vittima dimenticando ogni norma di comportamento sociale morale.

Questi due esperimenti piuttosto sconvolgenti e lo scritto di Hannah Arendt dovrebbero aver chiarito a chi legge, se pur in maniera breve e poco approfondita, la capacità di ognuno di noi di diventare carnefice o vittima con assoluta dedizione al ruolo attribuito secondo alcune circostanze e indipendentemente dalla fazione politica.

Davanti alla capacità di provocare dolore siamo tutti uguali, siamo tutti fascisti o comunisti, siamo tutti rossi o neri, siamo tutti guardie o ladri.

Ebbene queste giornate così importanti dovrebbero ricordarci proprio questo affinché ogni giorno si lotti perché non si verifichino quelle condizioni descritte dagli autori citati ,a prescindere dal tipo di regime o autorità che provi a inserirsi dentro a queste dinamiche.

Finché invece continueremo a muoverci immersi in un piano di faziosità e politicizzazione di queste giornate, ci ritroveremo a lottare l’un l’altro nelle bacheche dei social network o nelle piazze italiane, ritrovandoci inconsapevolmente ancora una volta a recitare la parte delle guardie e dei detenuti, delle vittime e dei carnefici. Tutto questo senza nemmeno accorgercene. Nel nome della difesa di un’ideologia trasformeremo queste giornate nell’ennesimo esperimento sociale in cui la banalità del male trova sfogo proprio nelle date in cui dovremmo ricordarci della “sconfitta” del male stesso, che tuttavia continua a serpeggiare dentro di noi e trova esplicitazione in queste occasioni.

La memoria non è la presa di posizione politica strumentalizzata all’imposizione di un’ideologia da parte di un leader carismatico e empatico , bensì è la capacità di studiare analiticamente cosa è accaduto perché questo non accada più, indipendentemente dall’ideologia politica. 

La memoria ci deve ricordare in queste giornate che davanti al male siamo tutti uguali, siamo tutti banali, siamo tutti agnelli capaci di diventare lupi.


 
[1] ARENDT, La Banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. 1963
[2] https://dirittopenaleuomo.org/storie_dpu/un-esperimento-passato-alla-storia/
[3] https://www.stateofmind.it/2016/04/esperimento-obbedienza-milgram/