La strage di Paderno Dugnano, avvenuta quando i riflettori mediatici erano ancora diretti sull’omicidio di Sharon Verzeni, sembra lasciarci tutti schiacciati sotto la forza annichilente dell’inspiegabilità e del caso. Mette a nudo tutta l’impotenza e fragilità umana di fronte a questi fatti atroci. Siamo tutti divisi tra l’incredulità, la rabbia, la paura, lo smarrimento, perché questi fatti, rimbalzati continuamente dal megafono mediatico, acquistano immediatamente la dimensione del trauma, simile a quello che individualmente può colpire le persone in seguito ad un lutto o ad un evento bellico prolungato. Un trauma vissuto individualmente che entra gradualmente nell’inconscio collettivo, aumentando il rumore di fondo del senso di angoscia sociale (che aleggia da sempre) e la vulnerabilità delle regole che governano il vivere insieme.
Quello che rende insopportabile questi fatti, è l’apparente assenza di qualsiasi motivazione, tanto che gli stessi inquirenti, gli esperti e gli esegeti della domenica sembrano spinti, impotenti, a proporre soluzioni al limite dell’occulto. Si sente dire, ad esempio,
“era spinto da una forza che lo costringeva a compiere l’atto imprecisamente” oppure
“Non sa nemmeno lui perché lo ha fatto, sa solo che ci stava pensando da un po’ di tempo. In casa si sentiva come un corpo estraneo. Si sentiva oppresso” È come se un’intera classe di professionisti si fosse impigliata nei balbettamenti iniziali e sconclusionati di una mente immatura e disturbata. Forse, complice la pressione mediatica ad ottenere a tutti i costi una risposta immediata, non prendono più le dovute distanze che il compito di una seria elaborazione richiederebbe. L’assenza di giustificazione giustifica l’atto. Questa sembra l’aberrante conclusione dei sillogismi con doppio salto mortale che si inscenano sui media ogni volta che accadono questi fatti. Come si esce da questo corto circuito? Quasi impossibile.
La ricerca ossessiva di una motivazione (forse inesistente) spinge verso la ricostruzione ossessiva dell'escatologia criminale, della vivisezione dell’atto, dimenticandosi delle vittime. Poiché non si può e non si riesce a dare una spiegazione convincente si finisce col compatire il carnefice. Si adducono elementi come il disagio giovanile, la solitudine, i Social, l’immancabile smartphone, l’emarginazione o l’incomunicabilità generazionale evitando di stabilire l’impossibile nesso tra questi e il massacro di un’intera famiglia. La verità è che ci sono motivazioni che hanno la semplice forza del fatto accaduto.
Ho letto e sentito di alcuni esperti che si appellano, ad esempio, alla mancanza di dialogo tra genitori e figli. Ma questa spiegazione non convince se si pensa all’incomunicabilità generazionale e genitoriale dei tempi passati, in cui si finiva col dare del Voi ai genitori anche sul letto di morte senza averli mai veramente conosciuti, e molti nostri bisnonni non sapevano nemmeno contare quanti dei loro figli girassero per casa. Si rompevano i ponti rapidamente, si emigrava su altri continenti e spesso si recidevano i legami con la famiglia di origine. E allora? Forse è proprio la permanenza iper-protetta nelle famiglie attuali a produrre queste deviazioni? No, perché ogni caso è a sé. Si mescolano le vicende di individui emarginati dalla famiglia e dalla società a quelle di mammoni incapaci di rompere l’involucro materno.
Quello, dunque, che rende terribili questi crimini è l’assenza pressoché completa di una ragione apparente. In questo senso si potrebbe discernere la vera differenza (senza giustificarla in alcun modo) tra questi crimini e alcuni drammatici episodi del passato. Tutti, ricordiamo la tragica vicenda di Pietro Maso, del 1991: il ragazzone di Montecchia di Crosara (di quel Veneto dedito a produrre ricchezza), figlio diciannovenne, che un bel giorno decide, assieme a 3 amici, di massacrare al loro rientro da un incontro i genitori (agricoltori benestanti). Vengono colpiti a colpi di spranga, di pentola e a calci e pugni in testa, un massacro di indicibile violenza e durata. La madre poi, non morendo subito, viene soffocata con del cotone in gola. Il quartetto della mattanza se ne va, subito dopo il massacro, a godersi il frutto del primo bottino in discoteca, come "nulla fosse". Chi è nato a cavallo tra la metà degli anni ’60 e quelli ’70 non dimenticherà più quel fatto, perché è entrato nel cupo immaginario di un’intera generazione. La situazione, a Montecchia di Crosara, è stata ben diversa. C’era stato già un primo tentativo, cosa che ha reso chiara, fin da subito, la premeditazione agli inquirenti. Ma è soprattutto nella motivazione che si nasconde la vera differenza rispetto ad alcuni ultimi fatti di sangue. Pietro Maso, era spinto dal vile denaro. La sua generazione, ancora ebbra degli anni ’80, lo associava al riconoscimento sociale, al potere, al successo e al consenso femminile. Si, l’eredità da avere subito, dunque, ora o mai più, senza dover aspettare l’età matura. Nella loro mente, l’unico supplizio generazionale insopportabile era il non essere nessuno nell’assenza di godimento immediato di denaro e ricchezze. Anche dopo quella strage, abbiamo tutti pensato che quei ragazzi fossero semplicemente il prodotto dei materialisti anni ’80. Sbagliando naturalmente.
Quello che sconvolge, invece, nei fatti di Paderno è, come detto, l’assenza apparente di un movente, se non reconditamente nascosto nel nulla interiore più profondo che sembra abitare quel ragazzo (alla fine un anno più giovane di Pietro Maso). C’è, tuttavia, il rischio insidioso a generalizzare il comportamento del singolo ad un intera generazione nel tentativo endoscopico di dare un senso psico-sociologico all’evento. Tutti i questi tentativi sono inutili e infruttuosi, perché la verità è che non si saprà mai veramente perché lo abbia fatto, e probabilmente una spiegazione esaustiva (con nostra buona pace) non c’è nemmeno . Per questo parlo di superamento del paradigma Maso. Per anni esso ha rappresentato il modello da cui gli esperti partivano per individuare l il movente di un massacro. Oggi tutto questo sembrerebbe essere stato superato in peggio. Ma lasciamo l’ultima parola a, sociologi, psicologi e psichiatri, purché avvenga lontano dagli studi televisivi.
Ci sono quelli che generalizzano e ci sono coloro che, disorientati e spauriti, cercano addirittura una causa soprannaturale, per non dire diabolica e chi la cerca nelle Sacre scritture. Chi è cristiano, ad esempio, conosce bene il passo del vangelo in cui Gesù, molto severamente, parla degli ultimi giorni prima del giudizio parlando di alcuni agghiaccianti segni premonitori, come in Marco (13 – 12,13), dove dice “il fratello consegnerà alla morte il fratello, e il padre il figlio; i figli si leveranno contro i genitori e li faranno morire…”: Insomma, da cristiano, non nascondo la molta inquietudine che questi passi procurano.
C’è infine un ultimo aspetto, forse il più importante: le vittime. Esse finiscono sempre per essere annullate sull’altare sacrificale della notizia. Quanti di noi ricordano, ad esempio, i nomi dei fratelli o dei genitori massacrati? Eppure, di questo si parla. Nel tentativo egoistico di delimitare il mostro e tenerlo lontano da noi, finiamo per dimenticarci delle vittime. Come di quel fratellino di 12 anni, già sparito dalla bocca di tutti. Lui dovrebbe farci riflettere, lui che dormiva, sicuro che dal fratello maggiore potessero arrivare solo protezione, favole e abbracci, e invece è arrivato un incubo assieme al coltello. I genitori che hanno avuto il tempo di accorgersi della follia omicida per finire anche loro macellati.
L’unico sentimento che dovremmo davvero nutrire, oltre la becera curiosità frammista alla paura più per sé che per gli altri, è il desiderio di ricordare le vittime come fossero i nostri fratelli e genitori, tramandando per sempre quell’istinto innato a proteggere (anziché uccidere), a mettere al sicuro chi si trova in pericolo.
Non so se, come dice Meloni, oggi non si riesce più a capire cosa sti accadendo a questa giovane generazione. Quello che so è che la generalizzazione, cioè il tentativo di ridurre un fenomeno semplificandolo, ha come unico scopo quello di tranquillizzarci, facendoci però perdere la vera drammaticità, unicità spaventosa, potenzialmente ripetibile e inspiegabile, dell’accaduto.