George Floyd,era un uomo di 46 anni, afroamericano residente in un sobborgo di Minneapolis che lavorava come buttafuori in un ristorante chiuso da marzo a causa del lockdown. Per questo stava cercando un nuovo lavoro in attesa della riapertura.
"Non respiro".
Respiro, il soffio vitale che parla di noi.
Immagino il viaggio di George in quegli interminabili istanti, avvolto dall'ottundimento della nebbia mortifera.
Itaca, fine di un viaggio, George è diventato Ulisse che ritorna da mondi sconosciuti e pieni di odio, da esperienze incredibili e travolgenti perché indecifrabili.
Un eroe.
Ucciso da 4 poliziotti si dirà.
Che come la Covid-19 annientano il soffio vitale per disintegrare senza né colpe né accuse, almeno nel momento in cui si scrive, l'esistenza di un mondo che si differenzia: per un colore.
Non ci sono altre motivazioni.
L'uomo colorato è sdraiato a faccia in giù per strada e in manette con le braccia dietro la schiena, resta in silenzio e immobile, mentre il poliziotto continua a premere il ginocchio su di lui.
Cinque minuti.
Essere un nero in America non dovrebbe significare una sentenza di morte.
Per cinque minuti un poliziotto bianco ha premuto il ginocchio contro il collo di un uomo di colore.
Cinque minuti.
Ripetiamolo.
I'm not breathe.
È stato attraverso un “respiro”, quello divino di Atena, che Achille riuscì a salvarsi dal dardo mortifero scoccato da Ettore…
George avrebbe potuto essere un Achille se avesse avuto un salvatore.
La drammatica vicenda fa chiaramente capire che ,i registi del clima di odio razziale ,agiscono ripetutamente e impunemente mettendo, quando vogliono, in scena l'abominio della superiorità della specie,proprio nel paese che ha consacrato falsamente la libertà in una statua, simbolo ipocrita di fama globale .
Fasulla e farisea come l'elezione di Obama, arrabattata e mediocre emulazione di leader carismatici del passato, di fatto salutata come la fine della questione razziale.
Niente di più sbagliato.
La razza resta un pilastro della società statunitense e un potente fattore di discriminazione, specialmente in tempo di crisi.
L’elezione di Obama, che aveva segnato un giorno storico per i diritti in America, si lascia alle spalle rancori e veleni che, nell’elezione del repubblicano Donald Trump, fanno riaffiorare spettri e umori che si credevano per sempre fugati.
Obama avendo avuto paura di essere considerato non solo un Presidente afroamericano ma il Presidente degli afroamericani ha adottato una sorta di strategia di normalizzazione che e' passata a neutralizzare il problema semplicemente non parlandone.
In realtà ha solo nascosto la rotta al capitano del Titanic che ben presto troverà la sua fine inesorabile in un iceberg.
Appunto.
In realtà solo dopo gli innumerevoli casi di cronaca che evidenziarono lo stillicidio di giovani neri uccisi dalle Forze dell’Ordine,ritornò a parlarne, a Selma, in occasione dell’anniversario della famosa marcia di Martin Luther King, sostenendo che: «Quella marcia non è finita, bisogna proseguire e continuare il lavoro».
Ma eravamo già agli sgoccioli della sua amministrazione.
In qualche modo Obama ha salutato l’idea che la sua elezione potesse davvero rappresentare gli inizi di un’età post razziale e questo semplice fatto ha in qualche modo cancellato queste nozioni dal dibattito pubblico.
E dunque oggi come allora.
Bianchi contro neri.
Cinquanta anni fa, gli Stati Uniti erano la culla della segregazione razziale.
I “colored” avevano posti riservati sui bus, bagni separati dai bianchi e scuole per conto proprio.
Solo Martin Luther King o Malcolm X riuscirono a formare vere e proprie manifestazioni di massa e forme di disobbedienza civile che poi furono portate avanti dalla popolazione afroamericana.
L’agonia riprende la scena.
La memoria perde senso.
Come il discorso del Presidente Lincoln, il 19 novembre 1863, pronunciato in occasione della cerimonia di inaugurazione del cimitero militare di Gettysburg, 4 mesi e mezzo dopo la storica battaglia:
"Or sono sedici lustri e sette anni che i nostri avi costruirono su questo continente una nuova nazione, concepita nella Libertà e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione, così concepita e così votata, possa a lungo perdurare.Noi ci siamo raccolti su di un gran campo di battaglia di quella guerra. Noi siamo venuti a destinare una parte di quel campo a luogo di ultimo riposo per coloro che qui dettero la loro vita, perché quella nazione potesse vivere. È del tutto giusto e appropriato che noi compiamo quest’atto. Ma, in un senso più ampio, noi non possiamo inaugurare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo.I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato, ben al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o portar via alcunché. Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò che essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono.Sta piuttosto a noi il votarci qui al grande compito che ci è dinnanzi: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano (per nulla); che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra".
Dov'è finita la proclamata libertà?