Si sta aprendo uno strano dibattito sulla questione “carcere duro”, il famoso 41 bis. Le vicende di giustizia (e sicurezza) che oggi ruotano attorno al caso Cospito e l’incertezza di una politica che non sa esattamente che pesci pigliare, ma straparla continuamente con il suo piglio ipergarantista, da un lato, e giustizialista, quando fa comodo, non contribuiscono a rendere chiaro ciò di cui si sta parlando.

L’opposizione politica, che naturalmente quando non è caciara è comunque d’attacco frontale (il grande fraintendimento del pluralismo Costituzionale), contribuisce invece a rendere più torbida l’intera questione. Come del resto stanno anche facendo studenti e gruppi di protesta.

Perché, al netto di chi ci marcia, si estremizza e si complica ciò che è semplice - diciamo pure: occamistico - in un problema che necessita di una banale presa di coscienza, con legittime  - ma serene! - considerazioni e proposte laddove si ravvisassero abnormità.

Il 41 bis è giusto o abnorme? Parliamone.

I fiumi d’inchiostro versati sul tema dei delitti e delle pene sono pressoché inestimabili, nel tempo e nella storia. In particolare, l’omonima opera saggistica di Cesare Beccaria (1764) unanimemente riconosciuta come un capolavoro di sintesi che ha ispirato altri autorevoli saggisti e filosofi, come Voltaire, dando vita a illustri commenti e versioni rimaneggiate dell’opera originaria: tutte degne e di gran spessore.

Qui mi permetto di farle omaggio attraverso l’immagine che accompagna quest’articolo, ove è raffigurata la quinta edizione dell’opera (1766, immagine dalla libreria antiquaria Gonnelli, Firenze).

L’assunto più illuminante del Beccaria, che lui definisce “teorema generale” si scorge nella seguente frase: «perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev'essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a' delitti, dettata dalle leggi». Così, nel quarantasettesimo e ultimo capitolo, le parole che chiudono l’opera.

D’ispirazione anche alle Costituzioni di diversi paesi, sistemi giuridici common law piuttosto che civil law, incluso il nostro, e suggello di un’etica ultramillenaria che spesso veniva considerata “rammollita”. Perché strumenti efferati e definitivi come la torura, la pena di morte, le pene equivalenti (se rubi muori, se uccidi muori), sono stati sempre ed erroneamente considerati come unico deterrente dei reati.

Non è mai stato vero, visto che i risultati non si sono affatto prodotti. La motivazione di chi commette il delitto supera sempre qualunque timore.

A ciò addivennero perfino scrittori e filosofi di magistrale capacità narrative, come in Delitto e Castigo di Dostoevskij, romanzo che ha attraversato e influenzato il pensiero di mezzo mondo. In proposito egli diceva: «Nel mio romanzo, vi è inoltre un'allusione all'idea che la pena giuridica comminata per il delitto spaventa il criminale molto meno di quanto pensino i legislatori, in parte perché anche lui stesso, moralmente, la richiede».

La nostra Costituzione ha saggiamente recepito l’etica consolidatasi nel tempo, abolendo la pena di morte al quarto comma dell’art. 27, e sancendo al terzo: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». L’art. 13, peraltro, vieta e punisce qualunque violenza fisica e morale sulle persone che vengono sottoposte a limitazione della propria libertà, come coloro che sono sottoposti a regimi di detenzione.

Abbiamo dunque degli elementi importanti da considerare: umanità della pene; categorica assenza di violenze morali e fisiche; necessità di pene  rieducative.

Ma prima di analizzare tali elementi dobbiamo avere chiara la ragione che rende necessaria l’identificazione di un delitto e la relativa determinazione della pena. E tale ragione si chiama rispetto del contratto sociale. Talvolta un concetto esplicito, ma quasi sempre implicito, determinato dal semplice fatto che tutti noi (cittadini) abbiamo abdicato alla nostra libertà naturale accettando di sottoporla a delle regole che garantiscono una sicurezza e prosperità maggiori rispetto ad altre forme di autogoverno (cfr: Hobbes, tra i maggiori esponenti contrattualisti).

Il governo che noi deleghiamo in proposito deve dunque garantire la sicurezza, prima di ogni cosa, impedendo e prevenendo ogni forma di crimine che può danneggiare i consociati.

Finché esiste questa forma di consociativismo, noi, i nostri politici, e chiunque protesta, possono discutere di qualunque cosa, ma non della necessità di tutelare, prioritariamente e in tutti i modi possibili, i cittadini da altri crimini come quelli perpetrati da mafiosi e terroristi. Se, da un lato, è inammissibile porre fine alla vita di un criminale che ha procurato o tentato stragi e violenze inaccettabili, dall’altro lato è comunque necessario evitare che tali individui, non pentiti e/o non rieducabili, possano continuare ad agire nei loro disegni criminosi da dietro le quinte di una carcerazione con tutti i comfort.

Peraltro, dal comfort al 41 bis non corre alcuna particolare differenza in termini di “umanità della pena”, piuttosto che regime di tortura morale o psicologica. Certo, si può soffrire di più subendo colloqui limitati a una sola ora una volta al mese; così come può essere deprimente sapere che tutta la corrispondenza è sorvegliata. Per chi è privato della libertà è solo una questione di più o di meno, ma la pena, qualunque essa sia, non può mai essere definita umana! Un castigo umano è ossimoro per eccellenza.

Quindi dovremmo chiederci soltanto se questo più o meno, per il caso (delitto) specifico è giustificato. Non per mettere paura al criminale, perché egli ne è immune; né ovviamente per farlo soffrire, così come Beccaria e Dostoevskij ci dicevano. Ma per altre esigenze.

Queste esigenze sono unicamente la pericolosità di reiterazione del crimine. Se, dunque, tale pericolosità richiede un regime di sorveglianza speciale e delle limitazioni precise, non si possono mettere in discussione invocando la disumanità della pena, perché alla sua “maggior umanizzazione” conseguirebbe l’inammissibile aumento di rischio in violazione del contratto sociale.

La semplicità del ragionamento sta tutta qui: non è il regime del 41 bis a doversi mettere in discussione, ma il caso specifico come per esempio quello di Cospito. Il suo digiuno non può essere visto come protesta a quel tipo di condizione carceraria, ma unicamente al suo meritare o meno tale condizione.

Queste ultime, naturalmente, non sono valutazioni che può fare il sottoscritto o chicchessia.

Il limite che il nostro contratto sociale implica - per Costituzione e Leggi - è quello di non commettere un altro delitto, come Stato, nel punire il crimine o nel tentare di prevenire nuovi crimini da parte dei soggetti puniti. Ed io citerei di nuovo Beccaria su questo punto: «Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato.» (Cap. XLII, Delle scienze).

Il principio è lapalissiano e implica che il modo migliore, se non l’unico, è quello di fornire la massima istruzione ai cittadini, coltivando la pienezza dell’essere nella cultura. Solo così si potranno contenere i delitti e le pene, formando una società migliore.

Altrimenti è perfettamente inutile attaccare il 41 bis, perché è un male purtroppo necessario.. Ma attaccarlo conviene ovviamente ai criminali che non si pentono né hanno alcuna voglia di fare percorsi di alcun tipo.


📸 base foto: “Dei Delitti e Delle Pene”, 1766, Cesare Beccaria (immagine dalla libreria antiquaria Gonnelli, Firenze)