Abbiamo creato una generazione bambocciona senza speranza o c’è ancora rimedio?

Lavorare non conviene. Questa opinione sembrerebbe farsi strada tra le giovani  generazioni italiane , a giudicare dalle risposte  raccolte in giro.

Siamo dunque destinati a diventare un paese di fannulloni? Non è esattamente così.

Il confronto tra l’Italia attuale e quella di un tempo, compresa tra il primo dopoguerra e la fine del millennio, evidenzia l’aggravarsi di un notevole disagio nella fase di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, non solo per motivi dovuti alla delicatezza di questo momento della vita, ma per l’obiettiva incertezza del ruolo che attende un giovane di oggi.

Tutti ricordiamo, o ce lo hanno raccontato, che fino a qualche decennio fa le alternative erano o lo studio, magari fino ai livelli universitari; o, in caso di flop scolastico, dritti a lavorare, anche molto presto, la ragazzina magari commessa in un negozio e il giovanotto apprendista o operaio.

I genitori erano meno tolleranti di adesso verso l’ozio dei figli o le loro esigenze ricreative; le vacanze, manco a parlarne fino a che non si metteva su una famiglia propria, niente happy hour o discoteche, molto in uso i lunghi fidanzamenti, spesso conclusi dal matrimonio. Insomma, anche se forse un po’  monotono, si aveva davanti un  percorso di vita disegnato e chiaro.

La società è molto cambiata, e questo non dipende certo da chi è giovane oggi. Il modello proposto dai media fa sì che ci si senta spesso inadeguati, non all’altezza dell’immagine vincente che quasi tutti pretendono attualmente da un figlio. Il lavoro è diventato precario, scarso e malpagato, le esigenze si sono moltiplicate anche per i richiami esterni: la pubblicità mostra oggetti che un tempo non esistevano, ma che oggi, guai a non avere, e uno stile di vita che attira.

Inoltre, vedere i propri genitori, zii, se non gli stessi nonni, amareggiati perché hanno studiato per nulla, sono sottoutilizzati, lamentano che il merito e le capacità in Italia non vengono premiati, crea sbando e sconforto.

Si studia, si fanno corsi di formazione, ci si sbatte, ma più si prosegue, meno si capisce il perché. La realizzazione personale non arriva mai, e abbiamo l’impressione che a stare bene siano sempre i soliti noti, chi ha una famiglia potente alle spalle o agganci da qualche parte.

Nel complesso si è formata, secondo alcuni, una sorta di depressione collettiva giovanile, forse come quella della “ gioventù bruciata” di un celebre film, anche peggiore, perché senza prospettive, con la consapevolezza di un mondo con problemi gravissimi,  senza più qualche posto dove sognare di andare; e , in aggiunta, anche l’assenza delle figure genitoriali, che, se pur fanno del proprio meglio, non sembrano in grado di trasmettere valori e gestire  questa demoralizzazione.

Un fenomeno nuovo è anche la frattura tra generazioni. Il concetto di solidarietà non esiste più. I giovani si sono convinti che, se il lavoro manca, è per gli eccessivi vantaggi di cui godono i lavoratori più anziani, tutele che a loro mancano e li tengono nell’eterna incertezza di un’occupazione precaria.

Insomma, se si vuole avere ancora la speranza di lavorare occorre o una laurea di lungo corso, con specializzazioni sofisticate, e quindi si arriva al primo impiego, se va bene, sulla trentina; o andare all’estero, e magari anche se si è dei superlaureati; se no, ci si dovrà accontentare del posto in una cucina londinese o in un bar di Ibiza. Qualcuno racconta di aver trovato l’Eldorado in un paese del terzo mondo, ma gli italiani, in generale,  non sono più tagliati per l’emigrazione, hanno scordato il know how. Viaggiare è una cosa, migrare, anche se non da clandestini, è un’altra musica.

 

A questo punto è chiaro che un confronto con giovani di altri paesi occidentali sembra far sfigurare i coetanei italiani, ma questi ultimi, senza volerli giustificare, partono da basi diverse: una cultura del lavoro sicuro ( giusta o ingiusta, è stata inculcata); se vogliamo, l’idea di un nucleo familiare da cui non vogliono allontanarsi, il che è un bene, ma anche un ostacolo; e un’ attenzione nei loro confronti così scarsa da parte delle istituzioni e della politica, che ci sentiamo di concedere loro  qualche attenuante.

Una cosa è certa: così non si può continuare. Una paese senza un cuore giovane che pulsa, spera e progetta, non ha futuro. A meno di non affidarsi ai nuovi apporti, agli immigrati di prima e decupla generazione, e confidare in una fighissima integrazione.

 

(foto da avvocatirandogurrieri.it)