Ali Abbasi presenta il suo ultimo film in primavera al Festival di Cannes, riceve una standing ovation di otto minuti, e lo distribuisce negli Stati Uniti in autunno. La sua opera cerca di fermare la corsa alla presidenza di Donald Trump, non ci riesce ma resta indelebile.
Il giovane Donald è goffo e perdente, quando incontra per la prima volta l’avvocato Roy Cohn in un club a New York, e lo supplica di farsi carico del processo all’azienda di famiglia. Lui accetta, prende il ragazzo sotto la sua ala, lo plasma a sua immagine, gli confida i suoi stratagemmi e lo guida in un mondo di squali finché la sua creatura, come un moderno Frankenstein, non sfugge al suo controllo e supera il maestro.
A indossare l’inconfondibile ciuffo biondo è Sebastian Stan, ormai assiduo frequentatore di biopic. La sua è un’interpretazione studiata e dosata, in cui ogni gesto viene preparato come un’esame senza mai ridursi alla semplice imitazione. Tutto questo lavoro, però, non è abbastanza perché l’attore protagonista viene messo in ombra dal suo collega sullo schermo: Jeremy Strong. È l’avvocato del diavolo a catalizzare tutta l’attenzione, questo perché il suo interprete non soltanto realizza, curando ogni dettaglio, una figura inconfondibile, ma compie un’azione inaccettabile per l’etica del suo personaggio: diventa debole, si fa piccolo, malato e fragile. All’ombra del prorompente busto di Trump, sono le sue scintille di umanità a muovere a commozione lo spettatore, che lo scopre singhiozzare davanti a una torta con le candeline accese, sullo sfondo una bandiera a stelle e strisce, che sembra condannarlo mentre si piega al peso della malattia.
The Apprentice (2024), scalata al successo di Trump o discesa agli inferi
