IL VALORE DELLA MEMORIA: 19 LUGLIO 1992 - ORE 14.58

Rispettando il “sacro culto dell’ipocrisia” il 19 luglio viene ricordata la strage di via D’Amelio. Sono passati 28 anni, svolte infinite indagini, celebrati quattro processi, emesse sentenze ma la verità vera stenta ad emergere dal limo dei tradimenti, depistaggi, false testimonianze, calunnie, complicità, omertà, opportunismo, mancanza di spirito di servizio verso lo Stato, disprezzo per la verità, esercizio di un potere conferito usato indegnamente, ipocrisia.

A conclusione del processo Borsellino quater, la Procura di Caltanissetta inviava nel novembre scorso alla Procura di Messina un fascicolo affinché accertasse eventuali responsabilità di magistrati nella vicenda infatti durante il processo erano emersi quesiti sostanziali ai quali non era stata data risposta. In pratica il primo e secondo processo erano stati impiantati sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino un testimone indotto a dichiarazioni mendaci perché sottoposto a violenza psicologica e fisica dai poliziotti incaricati delle indagini. Tutto tempo perso e amarezza non solo per la famiglia che si è sempre battuta per ottenere un atto di giustizia ma uno schiaffo in pieno viso a tutti i cittadini onesti di questo sfortunato paese.

I giudici della Procura di Messina, dopo aver aperto una procedura per atti dovuti in base alla documentazione inviatagli dai giudici di Caltanissetta, espletate le dovute indagini, hanno deciso di iscrivere nel registro degli indagati insieme a tre funzionari di Polizia Mario Bo,  Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, il procuratore aggiunto a Catania Carmelo Petralia e l’avvocato generale dello Stato a Palermo Annamaria Palma, entrambi PM della Procura di Caltanissetta incaricati di istruire il processo di primo grado per la strage di via d’Amelio. Le ipotesi di reato sono: calunnia, depistaggio, favoreggiamento a cosa nostra con l’aggravante che da tale attività sono scaturite condanne superiori a 20 anni a carico di innocenti, furono condannati all’ergastolo ingiustamente Gaetano Murano, Giuseppe La Mattina, Cosimo Vernengo, Gaetano Scatto, Giuseppe Urso, Natale Gambino.

Scarantino fu gestito dal gruppo di polizia Falcone-Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera (morto nel 2002 e mai indagato, molto tempo dopo emerse che questi collaborava con il SISDE) suoi subalterni nelle indagini sono attualmente sotto processo  a Caltanissetta: non furono mai coinvolti i “livelli superiori” nonostante vi fosse una “certezza logica” che il depistaggio non poteva essere attribuito esclusivamente ad Arnaldo La Barbera, che beninteso non era il capo pro tempore della Polizia, ma solo della  Squadra Mobile di Palermo inoltre era stato nominato da altri capo del gruppo di polizia Falcone-Borsellino. Vi è inoltre un altro elemento significativo in questo gioco delle parti, le istituzioni impedirono a Rino Germanà di essere assegnato alla Criminalpol come aveva richiesto espressamente Borsellino, fu trasferito invece a Mazzara dove subì un grave attentato dal quale uscì vivo per miracolo eseguito da Matteo Messina Denaro, Giovanni Brusca e Giuseppe Graviano. Date le circostanze si dovevano valutare le eventuali responsabilità dei vertici di allora: Vincenzo Parisi, capo della Polizia e Luigi Rossi capo della Criminalpol.

Volendo fare il punto della situazione: con il processo Borsellino quater conclusosi nel 2018 la sentenza di primo grado e buona parte della Borsellino bis sono state svuotate perché fondate sulle false testimonianze di Scarantino.

Vengono confermate le condanne dei “mandanti interni a cosa nostra”; rimangono le condanne del terzo processo dei componenti della cupola mafiosa. Viene ricostruita la reale modalità della strage che permette di individuare i veri esecutori materiali dell’attentato inoltre l’inattendibilità di Scarantino fa cadere il coinvolgimento di Lorenzo Narracci, funzionario del SISDE, vicino a Bruno Contrada, che era stato indicato dall’imputato presente sui luoghi dove si stava organizzando l’attentato. Su quanto dichiarato da Scarantino si sono celebrati i due primi processi poi il castello accusatorio è miseramente crollato (per fortuna), oggi vi è la certezza che Scarantino non poteva essersi inventato tutto da solo ma che altri soggetti istituzionali hanno provveduto a cosa avrebbe dovuto dire.

Vi è inoltre il mistero dell’agenda rossa del giudice ucciso. Anche qui emergono particolari molto significativi: nel 2005 dallo studio di un fotografo su materiale di ripresa nell’immediato della strage è emerso che l’ufficiale sconosciuto al quale Ayala aveva consegnato la borsa del collega ucciso era Giovanni Arcangioli, ufficiale del nucleo operativo dei Carabinieri di Palermo (indagato, fu prosciolto).  Le riprese disponibili mostrano Arcangioli passare in mezzo ai cadaveri e alle auto in fiamme impegnato solo a portar via la borsa. Ascoltato come testimone non ha saputo fornire alcuna spiegazione riguardo la borsa e soprattutto spiegare come fosse tornata poco dopo nell’auto distrutta di Borsellino e successivamente prelevata dall’ispettore di Polizia Maggi. Presumibilmente dal momento della strage alla redazione della prima relazione di servizio rimase sul divano dell’ufficio di La Barbera a disposizione di tutti. L’agenda conteneva preziosi appunti sulle indagini che andava conducendo sulla morte di Falcone.

Rimane il più importante scenario da esplorare: gli apparati deviati dello Stato per individuarne le responsabilità e fare un po’ di pulizia perché è questo il vero problema che affligge l’Italia, non solo per l’uccisione di due onesti magistrati ma per i tanti fatti che hanno travolto e continuano a travolgere la vita di onesti cittadini. Scarantino scagiona i magistrati attribuendo la responsabilità esclusivamente ai poliziotti ma i giudici non ci credono e dati i risultati speriamo che le “ragion di Stato” non prevalgano come sempre e non si faccia chiarezza anche nell’interesse di chi è coinvolto ma soprattutto per i cittadini che hanno perso fiducia nelle istituzioni. Se vogliamo verità e giustizia bisogna avere il coraggio di guardare in alto, ai vertici dello Stato, è lì che si annidano coloro che avvelenano la nostra democrazia, ledono i nostri diritti costituzionali e mettono in pericolo la nostra sopravvivenza. Se vogliano risolvere il problema della mafia nel nostro paese dobbiamo cercare i veri mandanti e non sono coloro che eseguono materialmente i crimini o i loro capi: questi sono solo operatori, ci vuole ben altro per condurre la macchina della giustizia fuori strada.

I magistrati sono pagati dai contribuenti, vengono conferiti loro ampi poteri e mezzi non per gestirli a loro comodo, la posizione privilegiata che gli è stata accordata dai cittadini deve essere vissuta con serietà, umiltà e spirito di servizio: noi non dobbiamo essere la moneta con la quale viene pagato il prezzo dei compromessi di coloro che mancano di questo senso di responsabilità verso la collettività.