La sovrapposizione quasi perfetta tra le logiche che definiscono confini identitari e comunitari delle persone autistiche e delle persone sorde suggerisce la presenza di modelli comunicativi simili, legate a difficoltà uditive comuni, seppure originate da condizioni differenti, sempre più sostenute da evidenze scientifiche, di cui le persone autistiche non sono del tutto consapevoli, ma che, anche se inconsapevolmente, segnano la strada.

Nel suo libro Normalcy: Disability, Deafness and the Body pubblicato  da Lennard Davis, teorico dei Disability Studies, udente legato alla comunità sorda, sosteneva che la sordità avesse assunto, durante l'Illuminismo, una valenza simbolica centrale in ragione della codificazione del linguaggio dei segni da parte di Charles-Michel de L’Épée, più noto come l’Abbé de L’Épée, filantropo che si era proposto di salvare i sordi dalla dannazione eterna, insegnando loro la parola divina.

Secondo l'analisi di Davis prima della creazione dell’Istituto per giovani sordi a Parigi la sordità dal punto di vista sociale non esisteva. Era una condizione che non trovava luogo nello spazio sociale, al di fuori di quello familiare e veniva sempre correlata al mutismo.

La diffusione della lingua dei segni aveva aperto un varco per la nascita di una comunità linguistica, che era andata a rappresentare una sorta di “uscita dallo stato di minorità”.

Questo discorso ha moltissime affinità con l'autismo, che, considerato fino a pochi anni fa una condizione rara e attinente alla gravità psichiatrica, ha oggi assunto una valenza simbolica centrale nella nostra società, uscendo dagli spazi familiari per conquistare spazi sociali.

Non a caso si è andata costituendo  una comunità autistica, che al pari di quella sorda ha cominciato a portare avanti delle battaglie identitarie.

Ma i parallelismi tra la storia dell'autismo e la storia della sordità sono ancora più rilevanti.

La storia dell'autismo è contrassegnata, come quella della sordità, da una  continua oscillazione dalla cornice patologica a quella sociale e identitaria, che segna la vita di ciascuna persona autistica.

Tuttavia, categorizzare certe esperienze come il risultato di un  modo “autistico”, così come di un modo “sordo” di vivere nel mondo e di relazionarsi  con l'altro, può portare a una esasperazione delle differenze e ha in sé il rischio di una involontaria promozione dell'esclusione in nome di una presunta autenticità.

Molti adulti autistici e genitori di bambini autistici stanno cercando di  trasformare l’autismo, così com’è accaduto con la sordità, da stigma a identità culturale. Ma in che modo può una condizione che è stata etichettata storicamente come una patologia psichiatrica prima e come una disabilità poi divenire la base per un processo di identificazione culturale?

La questione se l’autismo possa costituire effettivamente il fondamento di una diversa visione del mondo, con le dirette conseguenze sul piano culturale e sociale che questo comporterebbe, è un dibattito che spesso esibisce le intense emozioni contrastanti che lo muovono.

Esattamente come è avvenuto nella comunità sorda, negli ultimi decenni, i sostenitori dell’autismo come cultura hanno cominciato ad affermare che le persone autistiche non sono malate e che, quindi, non hanno bisogno di essere “riparate”.

Non è mia intenzione, perché non è questa la sede adeguata, esprimere la mia opinione su questa operazione culturale. Quello che mi preme far notare è, invece, la sua assoluta sovrapposizione con un'operazione analoga realizzata in precedenza dalla comunità sorda, all’interno della quale molti sono stati i sostenitori dell’idea che la sordità non sia una patologia e quindi che non debba essere riparata (Butler, Skelton e Valentine, 2001; Dolnick, 1993; Lane, 1992, 1997; Padden & Humphries, 1988; Wilcox 1989), arrivando anche a distinguere nei Deaf Studies «sordo» (deaf) con la prima lettera minuscola opposto a «Sordo» (Deaf) con la prima lettera maiuscola per intendere due diversi modi di essere sordi: quelli “audiologici”, che non condividono “il fatto sociale” con altri sordi, ma vivono e provano a integrarsi nel mondo udente e quelli segnanti e appartenenti alla comunità (Dolnick, 1993).

 
Allo stesso modo tra le persone autistiche si sta strutturando una rete di definizioni coniate all'interno del gruppo che si contrappongono in maniera sistematica ad altre definizioni usate al di fuori del gruppo, definizioni in cui si riconoscono, nelle seconde, gli autistici che non condividono la loro condizione socialmente e provano a integrarsi nel mondo non autistico, e nelle prime, gli autistici che si considerano membri di una comunità autistica.

Oltre alle diverse definizioni, autistico, ad alto funzionamento, a basso funzionamento, Asperger, verbale, non verbale , si ritrova anche in alcuni casi la nozione di cultura autistica per circoscrivere e definire una visione socio-culturale dell’autismo, intesa come prospettiva basata su un’esperienza percettiva e contrapposta alla cultura cosiddetta neurotipica.

Quando l’autismo viene trattato in termini di appartenenza a una comunità minoritaria, si formano, abbastanza spesso, confini tra chi è “più autistico”, i cosiddetti autistici a basso funzionamento, e chi è “meno autistico”, i cosiddetti autistici ad alto funzionamento o i cosiddetti Asperger, ma anche tra figli di genitori autistici e figli di genitori non autistici.

 
L'articolo di Dolnick "La sordità come cultura", presenta un eccellente sintesi di questo tipo di dibattito sulla cultura dei sordi. Nel caso di bambini sordi nati da genitori udenti "genitore e figlio appartengono a culture diverse, come accadrebbe in un'adozione etnica", dice Dolnick, "e i bambini sordi acquisiscono un senso di identità culturale dai loro coetanei piuttosto che dai loro genitori".

Questa è una sensazione spesso riferita anche da autistici nati da genitori non autistici, che dicono proprio di avere l’impressione di “parlare due lingue diverse”.

La visione della sordità come cultura sostiene che i bambini e gli adulti che non possono sentire sono isolati dalla popolazione generale perché la comunicazione con gli individui udenti sarà sempre laboriosa (Butler, Skelton & Valentine, 2001; Dolnick, 1993; Fletcher, 1988; Foster, 1988; Marschark , 1993; Padden & Humphries, 1988; Wilcox, 1989).

Ad esempio, lo studio di Foster ha esaminato le esperienze  degli studenti sordi all'interno di una popolazione di udenti e ha scoperto che la loro interazione con gli studenti non sordi era gravemente ridotta a causa delle barriere di comunicazione.

Lo studio ha anche rilevato che gli studenti sordi tendevano per la maggior parte a socializzare tra loro piuttosto che con studenti non sordi e questo è stato attribuito al linguaggio in comune e alle esperienze condivise.

Questo accade anche tra i bambini e i ragazzi autistici, evidentemente anche in questo caso a causa di barriere di comunicazione. Solo che se nel caso delle persone sorde è la sordità a essere considerata una barriera comunicativa evidente, anche se in fondo la barriera comunicativa non è la sordità, ma, nel caso, l’indisponibilità dell’altro a utilizzare strumenti di comunicazione alternativi a quelli che usa di consueto per entrare in contatto con l’altro, anche se spesso, invece, le persone udenti tendono a pensare che debba essere la persona sorda soltanto a sforzarsi di farsi capire.

Allo stesso modo, anche nel caso delle persone autistiche, è l’autismo a essere considerato la barriera comunicativa. E se, nel caso della sordità, la presunta barriera, la sordità appunto,  è chiara e riconosciuta e non implica il mancato desiderio della persona sorda di comunicare e di socializzare, quindi non viene letta in maniera colpevolizzante, nel caso dell’autismo, invece la presunta barriera, non essendo nota, pur essendo molto spesso legata anche in questo caso a una specifica percezione uditiva, viene individuata nella presunta mancata incapacità/volontà della persona autistica di comunicare e di socializzare, e diventa, quindi, anche molto colpevolizzante.

Ed è proprio da qui che nasce la formazione di gruppi minoritari. Dallo stigma. Vale a dire dalla riduzione dell’altro a una persona guasta, danneggiata, che ha in sé una o più barriere comunicative. È accaduto con alcune minoranze etniche e religiose, con gli omosessuali, le donne, le persone con una disabilità, che hanno trasformato i loro stigma, allo scopo di ridefinirsi nella loro base identitaria (Brewer, 1991; Brewer, 1995; Coates, 1988; Crocker, 1989).

Non tutte le persone stigmatizzate scelgono, però, di identificarsi con altre persone che subiscono lo stesso stigma. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che un elemento che contribuisce in maniera importante a prevedere se le persone stigmatizzate formeranno o non formeranno dei gruppi minoritari è la probabilità che tali persone possano provare un senso di appartenenza al gruppo maggioritario (Crocker e Major 1989; Wright, Taylor e Moghaddam, 1990).

Anche il linguaggio viene utilizzato come strumento di coesione e di separazione e contribuisce in maniera molto significativa alla dinamica della formazione del gruppo (Bourhis e Giles, 1979; Giles, Bourhis e Taylor, 1977).

È stato anche dimostrato che le persone tendono a identificarsi più con persone che parlano la loro stessa lingua che con persone che condividono il loro stesso background familiare (Giles, Bourhis e Taylor, 1977).

Se l’autismo è considerato una disabilità, le persone autistiche portano allora su di sé lo stigma della “mancanza” di una caratteristica tipicamente umana, considerata essenziale per la sopravvivenza della società, vale a dire la capacità di comunicare e di socializzare, che rende lo stigma ancora più pesante e violento.

Questo porta molte persone autistiche a cercare di liberarsi, comprensibilmente, da questo stigma della disabilità, considerando l’autismo come un aspetto positivo della propria identità  (Barnes, Mercer & Shakespeare, 1999; Linton, 1998).

Questa operazione, in alcuni casi, alimenta il rischio di non riconoscere quegli elementi di difficoltà e di sofferenza che una data condizione può comportare, così come accade a volte per la sordità.

Sebbene i sostenitori della cultura autistica affermino di essere legati insieme dall’esperienza dell’autismo, affermano anche che l’autismo non significa una perdita, ma una prospettiva diversa del mondo, proprio come hanno detto i sordi (Dolnick, 1993; Padden & Humphries, 1988; Lane, 1992; Wilcox, 1989).

Dolnick (1993) cita due sostenitori della cultura dei sordi che affermano che  la parola disabile descrive coloro che sono ciechi o handicappati fisici, non le persone sorde.

Fletcher (1988) esplora la sua esperienza nel crescere un bambino sordo e la sua sensazione di disagio quando suo figlio indossa apparecchi acustici: "I miei occhi passano dal viso agli apparecchi acustici… Riconosco in me stesso un profondo sentimento di pietà... Il termine non udenti porta con sé il ricordo costante di un difetto, qualcosa di sbagliato, rotto".

Se nella comunità sorda, però, sono presenti anche molte persone udenti, nella comunità autistica sono presenti quasi esclusivamente persone autistiche. Fondamentale per questa comunità è l’idea che i tratti autistici costituiscono il risultato della variabilità umana, preziosa per la specie. A oggi questa visione non è condivisa universalmente tra le persone autistiche, soprattutto dai genitori di bambini autistici non verbali o con associato ritardo cognitivo, che a volte imputano agli autistici fino a poco tempo detti fa ad alto funzionamento o diagnosticati come Sindrome di Asperger, di essere “meno autistici”.

Le logiche complesse della definizione di confini identitari e comunitari muovono attorno all’idea che possa esistere un modo di essere e di agire da autistico puro, che si contrappone a un modo di essere e di agire da neurotipico, una sorta di “norma autistica” che si sovrappone perfettamente al concetto di “norma sorda”, che sarebbe costituita da una serie di modalità di comunicare, socializzare, rapportarsi con l’ambiente.

Da alcuni i genitori dei bambini autistici non verbali che insegnano ai figli la lingua dei segni, la Comunicazione Aumentativa e Alternativa e altre modalità comunicative vengono accusati di rifiutare l’autismo e di suggerire forme di comunicazione alternative a quella verbale, senza avere la pazienza di aspettare che il bambino trovi eventualmente da solo le modalità comunicative che preferisce.

Le numerose affinità tra i processi sociali e culturali che riguardano la sordità e l'autismo suggeriscono un'affinità tra modelli comunicativi simili, legata a difficoltà uditive comuni, seppure originate da condizioni differenti, di cui spesso le persone autistiche non sono consapevoli, ma che, anche se in maniera inconsapevole, segnano la strada.

Del resto, le evidenze scientifiche sempre più stanno mettendo in risalto l'inadeguatezza della categoria clinica e sociale di autismo per descrivere una condizione che attiene, invece, maggiormente a difficoltà uditive e vestibolari, di cui i criteri richiesti per la diagnosi di autismo non sono altro che conseguenze e non disturbi in sé.


Carmen Pernicola
Psicologa esperta nella consulenza psicologica per autismo, iperacusia, acufene, misofonia, sordità 

         
Per maggiori informazioni
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