Mohsen Mahdawi, studente propal della Columbia University, è stato rilasciato mercoledì dopo un’ordinanza del giudice federale Geoffrey Crawford. Il provvedimento arriva in risposta ai tentativi dell’amministrazione Trump di deportare Mahdawi per aver partecipato a manifestazioni di protesta in favore del popolo palestinese. Arrestato mentre si presentava ad un colloquio per ottenere la cittadinanza americana, Mahdawi ha passato due settimane in stato di detenzione senza alcuna accusa formale.
Il giudice Crawford ha motivato la decisione sostenendo che Mahdawi non costituisce una minaccia per la comunità né un rischio di fuga, paragonando l’attuale repressione politica a quella del Maccartismo, quando il dissenso politico portava a persecuzioni e arresti.
“Questa è una luce di speranza, speranza e fede nel sistema giudiziario americano”, ha dichiarato Mahdawi all’uscita dal tribunale, accolto da manifestanti che sventolavano bandiere palestinesi e intonavano cori come “nessuna paura” e “sì, amore”.
Nato e cresciuto in un campo profughi in Cisgiordania, Mahdawi vive da dieci anni nel Vermont e si appresta a laurearsi alla Columbia a maggio. Eppure, per il Dipartimento per la Sicurezza Interna, la sua presenza rappresenterebbe un problema. Tricia McLaughlin, portavoce del DHS, ha ribadito l'intenzione del governo di revocare la sua green card, accusandolo di supportare il terrorismo e mettere in pericolo la politica estera americana. “Nessun giudice ci impedirà di farlo”, ha affermato senza mezzi termini.
Le parole di McLaughlin hanno scatenato un’ondata di critiche. La delegazione dei parlamentari del Vermont eletti al Congresso, comprendente Bernie Sanders, Peter Welch e Becca Balint, ha condannato duramente l’azione dell’esecutivo, definendola “vergognosa e immorale”. Anche la Columbia University si è schierata a favore del proprio studente, sottolineando che chiunque si trovi negli Stati Uniti – cittadino o meno – ha diritto a un giusto processo.
Il caso Mahdawi si inserisce in un contesto più ampio: un’escalation di deportazioni e detenzioni di studenti stranieri per motivi ideologici. Altri due studenti, Mahmoud Khalil e Rumeysa Ozturk, rimangono tuttora in custodia senza accuse.
Crawford ha ribadito che Mahdawi ha semplicemente esercitato il proprio diritto costituzionale alla libertà di parola. “Anche se fosse un agitatore – e non lo è – la sua condotta è protetta dal Primo Emendamento”, ha sentenziato il giudice.
Dal canto suo, Mahdawi ha voluto lanciare un messaggio diretto al potere politico: “Lo dico chiaro e forte al presidente Trump e al suo gabinetto: non ho paura di voi. Mi hanno arrestato per aver detto no alla guerra, sì alla pace. Per aver detto che 50.000 morti palestinesi sono più che sufficienti”.
Il caso Mahdawi non è solo una vicenda giudiziaria. È il simbolo di una battaglia più ampia tra repressione politica e libertà costituzionali, tra sicurezza nazionale e diritti civili. E mentre l’amministrazione Trump continua a colpire chi osa dissentire, la decisione del giudice Crawford rappresenta un importante precedente, se non un argine, in un’epoca in cui la libertà di opinione rischia di diventare un crimine.