San Fruttuoso, una valle degli orti cresciuta a dismisura da un secolo in qua: prima palazzi in stile, poi edilizia del boom,  incombente sopra i vecchi borghi che cercano di sopravvivere….

Per il genovese che abita a San Fruttuoso, il tunnel  era un passaggio obbligato. E anche di più negli anni che furono, quando si era pedoni piuttosto che automobilisti, e si trotterellava lungo l’ interno, per transitare dal nostro quartierone alla stazione Brignole, e di lì, verso il centro città.

L’imboccatura appare nell’ultimo tratto di Borgo Incrociati, ancora antico , oggi oasi ed enclave nel turbine di traffico.

Bimba di quattro o cinque anni, lo percorrevo spesso stretta alla mano di mia madre. Verso la fine, all’imboccatura ovest, quella da cui di pomeriggio, nelle belle giornate penetrava una luce solare presaga di un ingresso trionfale nel cuore pulsante di Genova, sedeva un uomo di età indefinita, ma certo non più giovane, o precocemente invecchiato – anche così piccola, non ancora pratica di sistemi di valutazione dell’invecchiamento umano, potevo rendermene conto. Sempre a favore di sole, alto e ingobbito, capelli striati di grigio, sigaretta accesa a consumarsi tra le dita o le labbra, vendeva cravatte. Mostrava un’aria afflitta, poco convinto dell’attività con cui si proponeva. In effetti, non vidi mai nessuno comprare… o non ricordo di avercelo mai visto: di certo non notavo ressa all’improvvisato banchetto. All’ennesimo passaggio davanti al tizio male in arnese, tirai il braccio della mamma: ” Com’è quel signore? Perché è così?” “E’ americano, di quelli con la pelle nera”.

Ah, dunque esisteva anche quest’altra possibilità. Non possedevamo ancora la televisione, e molto avrei dovuto attendere per l’ingresso in un cinema. Appresi in questo modo un abbozzato concetto di diversità. Il venditore di cravatte non durò a lungo. Un bel giorno sparì. Chissà da quali lande della Louisiana o della Virginia era giunto fino lì, attraversando la guerra, uno sbarco nel porto, sbronze e risse tra marinai, fino a perdersi in quell’angolo di quiete piccolo borghese e operaia, dove, per un poco, non mancai ogni volta di guardarlo di sottecchi. Avevo l’impressione che mi sorridesse, comprensivo e rassegnato.

A seguire, nel tempo, capitò spesso di attraversare il tunnel per giungere a via San Vincenzo. E’ questa una strada parallela alla mitica arteria principale – via XX Settembre – ma più stretta, raccolta, intima. Case d’epoca, friggitorie, negozietti. Mia madre, sarta a tempo perso e soprattutto ad uso dei familiari, si approvvigionava in un bugigattolo sito nel primo tratto della via. Dentro, imperturbabile, si trovava una personaggio di quelli ormai irreperibili, che il tempo ha eliminato – immagino. Una signora genovese doc, sopra la sessantina: segaligna, capelli color biondo stoppa acconciati alla Olivia di Braccio di Ferro con le crocchiette fissate alle tempie, slavati e sporgenti occhi azzurri, bocca sempre arricciata a sedere di gallina, nubile senza scampo. Si esprimeva alternativamente in italiano e in dialetto, secondo l’interlocutore. Mamma saccheggiava cotonine, velluti, piquet e chinz. La attempata e sussiegosa signorina li srotolava con disinvoltura e garbo, nonostante l’esiguo spazio a disposizione, sul bancone già ingombro di merce; poi li tagliava dritti senza quasi guardarli, ammonticchiando i tagli impeccabilmente ripiegati, a ripetizione, meglio di una macchina industriale.

Gli odori ottocenteschi confluivano in quelli di lavanda che la padrona sicuramente diffondeva con sacchetti di propria produzione, del tipo che a scuola costituivano il compito in classe di applicazioni tecniche per le ragazzine. Abituata a trattare con lavoranti o padrone di laboratori sartoriali, quando non con la fidata sartina di famiglia o le più prestigiose modiste da cerimonia, la signorina gestì amabilmente ,senza mai tradire stanchezza , il suo negozio, come tante altre sue simili facevano con le mercerie, le rivendite di passamanerie o laneria o biancheria da corredo: residui boudoir commerciali, esempi indimenticabili di ambiente femminile e femminino allo stato puro.

A un certo punto – ma quando? – non vidi più neppur lei, con la sua testa lunga appena reclinata e il naso che tirava su nei lunghi inverni, sempre un po’ raffreddata nel negozietto non riscaldato per risparmiare, restia a gesti sconvenienti, come le avevano insegnato probabilmente le suore del collegio. Sulla strada del ritorno, i miei occhi venivano irresistibilmente attratti dalla folla di giovani hippy che con le loro Harley stazionavano davanti al Disco Club, oggi ancora in attività. Per regalo di promozione potei entrarvi, a nove anni, per comprare “Barbara Ann” dei Beach Boys. Che emozione.

Negli anni ’70 il tunnel si svuotò di persone. La gente, completamente irretita dall’auto, camminava poco. Rimasero i negozi, alcuni vecchi, altri in aggiunta. Chi vi lavorava doveva passarvi le giornate al buio, oppresso dall’odore di muffa – non mancava qualche infiltrazione – e dal rumore dei passaggi dei treni proprio sopra la testa. I muri si riempirono di manifesti pubblicitari. Vi saltellavo lieve, con le amiche, o il fidanzatino, per andare in centro al sabato pomeriggio, dal bar Motta o dal negozio Futura, che vendeva inutili arnesi e poster, oppure la domenica per andare ai cinema del centro o , di rado, nelle mitiche discoteche dell’epoca, il Betatron, il Maddox. Durò poco.

Negli anni ’80 le mie direttrici cambiarono verso e lo ignorai.

Negli anni ’90, per perdere peso, ricominciai a camminare. Lo percorrevo per andare al lavoro. Niente era più come prima. Si era riempito di ambulanti maghrebini, che vi dormivano. Essi furono sloggiati da colleghi senegalesi, discendenti dei progenitori del vecchio delle cravatte, che dovettero però spartirsi il territorio con i punkabbestia e i loro cani. Questi ultimi chiedevano soldi strimpellando orrendamente certe chitarre “una monetina, signora, ciao, per favore”. Non sempre un rifiuto veniva accolto bene. Si passava da “grazie lo stesso, buona giornata” a ” allora devo andare a rubare, maledetti!”. Periglioso era – e lo rimase – il transito domenicale , dacché allo stadio si va a piedi: una volta mi ritrovai schiacciata contro il muro da un fiume impetuoso e impietoso dei tifosi della squadra ospite, imbufaliti per il pessimo risultato della partita.

I commercianti protestarono per le baldorie etiliche dei clochard che bivaccavano nel tunnel, riducendolo anche a personale latrina, e ottennero dei cancelli. Il transito si fece ancor più rischioso. Quando presi casa nei paraggi, per evitare una lunga scalinata, mi toccò anche prendere l’ascensore interno al tunnel, cui si arrivava dopo un tetro corridoio cieco, roba da Bronx. Capitò di accordarsi tra sconosciuti per attraversarlo insieme: una volta un metal bardato di catene ce ne brandì una in faccia.

Arrivarono così agli anni 2000. Ci avvisarono, con dei cartelli, che i negozi sarebbero stati trasferiti a forza di fronte alla stazione Brignole, causa lavori. L’ascensore fu chiuso.I muri furono dipinti di azzurro e giallo, trionfarono tetre luci al neon. Un deserto. I lavori, continuarono. I colori dei muri furono sommersi di scritte e murales. Il tunnel fece una curva più stretta che impediva di vederne subito l’uscita. Dentro, sorsero residenze protette di natura spontanea: letti improvvisati, coperte, libri; per un po’ ci visse anche una famigliola. Vi passava, accampandosi nelle ore di transito, ancora qualche chitarrista; si avvicendavano dei fisarmonicisti, forse rom: gente tranquilla, però, che non insisteva per i soldi sbarrandoti il passo.

Ed è finito anche quel decennio. Sembra ieri!

Non è vero. Non sembra ieri, pare invece trascorso tanto, tanto tempo. Ora nel  tunnel si transita e basta , all'ingresso c'è la metro piantonata da  un gruppo di clochard quasi fisso  e, dentro, qualche volta, un piccolo indiano  che pesta un tamburo.