La giustizia non è di questa terra, dicevano i saggi. Allora a che serve? La verità processuale e quella dei fatti sono almeno lontani parenti? Ma poi, esiste la verità o bisogna accontentarsi delle sue risonanze che arrivano a noi, filtrate dalla personale sensibilità?

Storicamente la socializzazione delle efferatezze inizia, per convenzione, con Jack lo Squartatore, oscuro individuo della cui identità ancora oggi si discute. Peccato che l’ombra di questo sconosciuto “ripper” abbia aleggiato per decenni su Londra, quella vecchia, che ormai si può riconoscere solo nei film di Peter Sellers o dei Monty Python, e presentava risvolti di allegria british che si sono definitivamente persi.

Nell’eterna attesa che qualcuno ci racconti chi fosse il macellaio squartafemmine dei suburbi londinesi, torniamo a bomba nei nostri angusti confini che, chissà perché, ci sembrano sempre più stretti nonostante la globalizzazione.

In Europa si è andati a tambur battente verso l’impostazione riabilitativa della pena, dando vita a professioni già esistenti, prima meno conosciute e soprattutto mediatizzate: criminologi, insegnanti specializzati, educatori, allenatori carcerari, gestori di centri per l’avviamento al lavoro degli ex detenuti,  sempre più spesso laureati dietro le sbarre; negli USA meno garantisti, è comunque attivo un giro di professioni, soprattutto nel settore della libertà vigilata, che rende come un buon impiego governativo.

L’attenuazione apparente della severità da l’impressione, al cittadino atterrito, che non esista la “pena certa”, spingendolo a invocare il pungo di ferro; è sufficiente leggere i commenti sui social o andarsi a rivedere le dichiarazioni raccolte a caldo a Novi Ligure nel 2001, quando si credette, per pochi giorni, che l’eccidio di mamma e figlio fosse stato opera di balordi immigrati. Il borghese piccolo piccolo cova desideri di tortura frustrati, si direbbe.

In realtà, nel momento in cui si viene coinvolti in un evento di natura penale, anche solo come testimoni, la vita cambia d’un botto, provare per credere, e il cerchio fa presto a stringersi. In caso di imputazione, occorre far ricorso a costosi penalisti e periti, anche se i “rumours” insinuano che la passerella televisiva dei legal star li compenserebbe in buona parte (altrimenti non si spiegherebbe come emeriti spiantati abbiano beneficiato di pool legali degni di John Gotti).

Se qualcuno avesse dei dubbi sull’inferno in cui si può precipitare anche solo ai margini di un processo, si pensi al caso Marta Russo, la giovane universitaria romana colpita da un proiettile vagante il 9 maggio 1997 e al balletto delle testimonianze: con lo spettacolo supplementare, che ricordiamo unico nel nostro paese, di un confronto in aula tra la super testimone Gabriella Alletto e gli imputati Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, due giovani ricercatori  proposti al pubblico come spocchiosi spregiatori della vita umana, prima ancora di essere formalmente sottoposti a giudizio.

A parte le vicende penali red carpet, quelle che hanno assicurato ascolti marziani, ci sono un paio di narrazioni giudiziarie, quasi contemporanee, che spesso sono state offerte allo spettatore con particolare scarsità di dettagli significativi, a favore di quelli appariscenti. Ripetiamo: narrazioni, sulle quali sole possiamo basarci, evidenziandone i buchi.

In ordine cronologico, torniamo su un caso appena accennato in altro nostro articolo (“Mariella, Roberta, Francesca, Guerrina; quando il corpo non si trova”), ovvero quello della povera Guerrina Piscaglia.

La donna, 49 anni, vive in un paesino tosco/emiliano, viene da un matrimonio frustrato, un bambino morto alla nascita e un altro, amatissimo, disabile e bisognoso di cure. Il marito, Mirko Alessandrini, pare alzi il gomito e le condizioni economiche sono descritte come pessime. Guerrina è andata incontro a un certo declino fisico,  oltre l’età che non perdona, ma nulla ci hanno mai detto sulla vita di questa coppia prima dei noti fatti. Abbiamo visto Mirko indicarci una camera coniugale dove il letto non era più condiviso dai coniugi ma, tutto sommato, un rattoppamento per quieto vivere che sembrava funzionare, come per tante, troppe altre unioni: la felicità è morta, ma si sopravvive. Da lanazione.it.arezzo – 29 settembre 2014 “…Mirko Alessandrini, il marito di Guerrina, aveva un’altra. La famosa rumena di cui si sa poco e niente e di cui lui finora aveva parlato come di una semplice amica. L’ammissione arriva in diretta, davanti alle telecamere di Chi l’ha visto?...” 

Su quelle erte di alta collina si arrampica un giorno una pattuglia di parroci e vice, che arriva dall’Africa, e père Gratien Alabi, classe 1970 più o meno, non è nemmeno il più bello né il più alto in grado: corpulento e vistoso, pare tuttavia che celebrasse funzioni divertenti,  mai viste da quelle parti, ove la noia, quella profonda, evidentemente regna sovrana. Infatti appare quantomeno bislacca la scelta di allocare di botto dei religiosi (frati di uno sconosciuto ordine diventato famoso in questa occasione), di così remota provenienza, in un contesto abituato al maturo prevosto che benedice e impartisce; e che noi stessi, da nati cattolici, preferiamo, avendo antropologicamente rifiutato clergyman filoprotestanti o insegnanti di religione che fanno jogging in braghette, o accettavano celebrazioni in chitarra e inni hippy, giammai: grave, compunto, piegato dalle penitenze, lo preferivamo…finché abbiamo frequentato la chiesa, ossia per poco.

E dunque, ammesso avessimo bazzicato la parrocchia, mai avremmo accettato pienamente, nelle città, un folcloristico prete in sciarpe etniche che tambureggia tra le navate. In realtà, qualche mugugno serpeggiava anche a Ca’ Raffaello, tra le anziane devote, ma le più giovani sembravano gradire. Forse si tratta delle solite pinzochere da sacrestia, quel genere che ama la sottana sacerdotale, è eccitata dalla veste? Non sapremmo dire, non ce ne intendiamo.

Graziano e Guerrina erano amanti? E chi lo sa. A noi hanno parlato di 4.000 messaggini, soprattutto dell’ultimo (quello del coniglio), di Alabi che maneggia il cellulare della donna da lui appena uccisa, pretendendo di mandare sms in italiano, lingua in cui se la cava bene ma non è fluente - e doveva esserne conscio - e soprattutto di orari immaginari. Perché, a onta di quegli “specialisti” che a ogni sentenza ci spiegano perché è stata emessa, tirando una coperta corta, qui abbiamo soltanto un africano altezzoso, che ha preso i voti per i motivi per i quali spesso accade in Congo e similari paesi, sbattuto in un posto a lui culturalmente ignoto ed estraneo, che quel giorno deve officiare un funerale e si muove sull’auto guidata da Mirco, il marito della donna che avrebbe appena fatto fuori: come, non si sa.

Il frate guidava l’auto? Noi non abbiamo mai sentito che lo sapesse fare; un’automobile c’era, a disposizione della chiesa, ma l’abbiamo intravista condotta da un suo confratello e, d’altronde: in quale altro modo egli avrebbe potuto occultare sì perfettamente un cadavere? Conosceva i luoghi, era escursionista o cercatore di funghi? Non risulta proprio, né si è rinvenuta alcuna traccia biologica della donna, in canonica. Il congolese, a dispetto della tonaca, non era casto e guardava siti porno con donne e pure vestite da suore? Mah, chi è senza peccato…

Evidentemente nelle carte c’è la risposta, ma nessuno le ha mai viste, a parte chi è stato coinvolto nel processo. Nel frattempo i due colleghi di Gratien si sono involati, uno ad Haiti, l’altro a Lille, in Francia, dove lo ha seguito la voce di un suo impastrocchiamento nell’affaire.

E’ il marzo 2015. Restiamo tra gli antipatici, o poco empatici come si dice ora, perlomeno così disegnati dai cronisti. Il giovane militare campano Giosuè Ruotolo, di stanza a Pordenone, dove è fidanzato con una avvocatessa e attende di concorrere a un posto di finanziere, ha uno sguardo particolare, conferitogli dalla forma degli occhi, che le immagini mediatiche hanno sempre evidenziato. Viceversa, Trifone Ragone e Teresa Costanza sono sempre ritratti sorridenti, in perfetta forma, seminudi e belli come star del cinema.

Se lei è una assicuratrice, non ancora stabilizzata perché si trova lì proveniente da Milano, dopo aver seguito lui, e si diletta come cubista, il suo partner è un collega di Giosué, ovvero un militare di carriera, che però ha secondi e terzi lavori: chi parla di buttafuori, chi arriva addirittura a definirlo ex gigolò, chi accenna alla di vendita di anabolizzanti. All’osservatore normale tutto ciò appare strano. Gli uomini in divisa, la qualsiasi, lamentano sempre i bassi stipendi, peraltro comuni a tutti i pubblici dipendenti; il doppio lavoro sarebbe sconsigliabile, oltreché proibito. Nondimeno, se l’interessato da una mano al papà falegname o all’amico idraulico, passi; se invece bazzica ambienti dove la sua presenza potrebbe apparire inopportuna, la perplessità è d’obbligo.

C’era invidia verso i due fidanzati? Ovviamente sì, è immaginabile. Ruotolo invero non se la passava poi tanto peggio, anzi il futuro pareva sorridergli, ma, secondo la sentenza, rimuginava sull’esibizionismo dei due e bramava Costanza: per questo prende la pistola del nonno, aspetta che i morosi arrivino in auto in palestra e spara a entrambi, buttando poi l’arma in un laghetto.

Nessuno ha mai messo in dubbio questa versione, corroborata da un video che mostrerebbe l’auto del condannato  gironzolare nei pressi della gym in quegli orari, anche se un runner che correva in tondo non si è accorto di nulla. Nel tempo, però, ci hanno segnalato una brutta storia riguardante uno zio della ragazza, erroneamente (secondo un pentito) ucciso dalla mafia, il che avrebbe spinto la famiglia Costanza a spostarsi al nord; e un ambiente, quello degli arruolati, molto competitivo e carico di testosterone.

Ruotolo, prima dell’omicidio, avrebbe picchiato Ragone, anche se quest’ultimo era prestantissimo e, all’apparenza, in grado di suonarle al supposto rivale, per i supplementari motivi di carriera che rimpolpano il movente. Riferiamo un  terzo rinforzo movenziale, riportato da Cronachelucane.it (25 ottobre 2017): quello omosessuale, riferito a un’avventura “proibita” tra i due che, chissà perché, avrebbe dovuto preoccupare solo Giosué e non il virile Trifone.