Nell’articolo precedente scrivevo della beneficenza della Ferragni e delle discrepanze politiche che essa suscitava. Oggi vorrei parlarvi ancora di imprenditori, riprendere quella chiave narrativa e raffrontarla al pensiero purtroppo corrente, partendo da una delle persone più illuminate del secolo scorso. Un segno indelebile nella nostra storia recente di politica economica e del lavoro, una storia purtroppo finita per vivere solo su libri e documentari. Il profondo solco scavato non è stato sufficiente a farvi scivolare dentro le azioni dei governi. Solo qualche tiepida imitazione da altre parti private.

Questa è la storia di una grande azienda che ha nobilitato il nostro paese, e del suo sagace leader: Adriano Olivetti, che ci lasciò troppo prematuramente nel 1960.

Conosciuto anche come “l’imprenditore rosso”, era invece del tutto disallineato da qualunque ideologia, se non forse vicino a un socialismo liberale mai praticato in Italia o altrove. Risultava compatibile con il suo più solido principio secondo il quale il profitto aziendale doveva essere reinvestito a beneficio della comunità. Il socialismo liberale prevede in effetti la coesistenza del sistema economico capitalista a quella di altri sistemi economici improntati sull’equità e sulla giustizia sociale.

Questo modello “misto” applicato da Adriano Olivetti si contrapponeva a quello esclusivamente capitalista della sua epoca, che era solo una piccola avvisaglia della degenerazione che oggi viviamo, anche per via della globalizzazione. Uno schema imprenditoriale che oggi risulta quindi ancora più rivoluzionario e sconcertante, quasi inconcepibile.

Un modello che comunque risultava vincente. Nel secondo dopoguerra, l’Olivetti gestita dall’Ing. Adriano divenne una della prime aziende tecnologiche mondiali, superando anche l’IBM nell’introdurre e usare i transistors al posto delle valvole. A qualche anno dalla sua scomparsa, e dalla sua indubbia spinta motivazionale nonché precedenti esperienze tecnologiche come la famosa “Lettera 22” e l’ELEA (elaboratore elettronico dell’Olivetti degli anni ‘50), nacque l’altrettanto famosa “Olivetti Programma 101”, altrimenti detta “Perottina”, dal nome dell’Ing. Pier Giorgio Perotto a capo del gruppo di ricerca che la inventò. Un macchina programmabile da molti ritenuta un’illustre antenata dei primi desktop computer; utilizzata anche dalla NASA per eseguire diversi calcoli della missione Apollo 11 che ci portò sulla luna.

Adriano Olivetti conseguì questi invidiabili risultati applicando la sua idea di impresa umanizzata, un vero e proprio movimento improntato sul concetto di comunità, con il lavoratore al centro del sistema. Era l’industria posta al servizio della comunità, e non viceversa. E’ difficile fare degli elenchi circa le sue numerose innovazioni e rivoluzioni, anche perché non possono essere valutati singolarmente ma vanno inquadrati in un insieme olistico di componenti che danno vita a un sistema complesso e al contempo eterogeneo. Provo ugualmente a indicare qualcuno di questi ingredienti che sovvertivano il sistema.

Le fabbriche – ne nacquero diverse nel Canavese e altrove, come a Pozzuoli – vennero fatte sorgere laddove già risiedevano impiegati e operai, e non spiantando questi ultimi dai loro luoghi natii per concentrarli in poli di produzione. Vennero realizzate biblioteche con stanze di lettura e consultazione a uso e consumo dei dipendenti, con oltre 50 mila volumi, poiché Olivetti riteneva la cultura un elemento fondamentale della formazione umana e della consapevolezza di essere comunità. Anche molte delle migliori idee di Taylor, secondo quello che fu anche il cosiddetto taylorismo sull’organizzazione del lavoro e la divisione dei compiti, nei primi del ‘900, prendevano vita concretamente e con successo nelle fabbriche di Adriano Olivetti.

Introdusse asili nido e parchi all’interno delle fabbriche per fare in modo che i genitori non avessero nessun problema con la gestione dei figli durante il lavoro, potendo essere vicini e più presenti in tutti i momenti più significativi della loro crescita. Senza distinzioni tra operai, impiegati e quadri dirigenziali. E così con altri servizi, come l’ambulatorio medico e via discorrendo.

Gli stipendi erano naturalmente i più alti. Promosse borse di studio per i figli dei dipendenti, nonché l’azionariato dei dipendenti stessi, ritenendo giusto che almeno un terzo delle azioni fossero controllate da loro. Tutti godevano di numerose convenzioni e avevano anche occasione di ascoltare concerti, socializzare e confrontarsi con artisti e intellettuali presenti normalmente nelle fabbriche. Non esistevano distinzioni e luoghi gerarchici, e tutti potevano condividere gli stessi spazi e socializzare nei momenti di pausa, a prescindere dal loro ruolo aziendale. Non esistevano tempi rigidi e le pause stesse erano quasi discrezionali. Si creava consapevolezza e crescita culturale, mirando alla felicità di ciascun impiegato.

In stretta sintesi, il miracolo di Adriano Olivetti fu quello di amalgamare l’esigenza del profitto con l’inviolabilità dei diritti umani. Il lavoratore non era più una persona che doveva tenere fuori dal lavoro i propri problemi ed esigenze, ma facendo parte dell’azienda (“comunità”) i suoi problemi diventavano anch’essi centrali nel contesto lavorativo. E li risolveva!

Olivetti fu ostracizzato dai suoi colleghi industriali, dalla politica e dai sindacati (toh!). La sua morte prematura e improvvisa, per ischemia cerebrale, destò qualche perplessità. Non ci fu autopsia. In seguito si scoprì che la CIA teneva d’occhio Adriano Olivetti da più di 10 anni. La sua intraprendenza nel mettere troppo le mani sul sistema capitalistico – una religione che sappiamo bene quanto sia stata da sempre cara agli americani – era certamente un buon motivo per sorvegliarlo. Ma non l’unico; vista anche l’avanguardia tecnologica che disturbava e faceva gola allo stesso tempo.

La RAI dedicò diverse teche storiche ad Adriano Olivetti, e sono stati prodotti anche alcuni film e documentari. Non saprei riferire circa la qualità di questi ultimi, ma risulta certamente più agevole e puntuale fare riferimento alle cronache di ciò che ha effettivamente realizzato Olivetti, e secondariamente su ciò che lui stesso ha scritto, come ad esempio uno dei suoi saggi più interessanti: “Città dell’uomo”. Non da meno i postumi “Il cammino della Comunità” e “Democrazia senza partiti”.

Oggi non esiste più nulla di quella Olivetti. Diverse fabbriche sono diventate dei musei.

Non possiamo pretendere che le cose cambino dall’oggi al domani; gli esempi servono come punti fermi per riflettere e confrontare soluzioni. Ed è questa l’afflizione probabilmente più angosciante: manca la riflessione sugli esempi!

Adriano Olivetti, tra le altre cose, ha reso chiaro il concetto del “superfluo”. Ha ritenuto che il profitto dovesse essere reinvestito presso la comunità stessa (lavoratori) che lo ha reso possibile, ritenendo che altrimenti sarebbe stato un guadagno inutile. Denaro a valanghe che non serve a niente, se non a paralizzarlo per idee folli, collezioni di beni, opportunità di ulteriore moltiplicazione. Ed evidentemente la mancanza del limite comporta anche l’irraggiungibilità dell’obiettivo “felicità”, poiché l’accumulo di ricchezza non è mai sufficiente per ritenersi tranquilli o capaci di ottenere qualunque cosa. Mancherà sempre qualcosa!

A questa consapevolezza Olivetti aggiunse anche quella dell’incapacità umana di realizzare e gestire queste riflessioni, dovendo dunque trovare appoggio in un sistema politico che imponesse regole precise e paletti all’attuale libertà imprenditoriale sempre più deregolamentata.

Oggi, invece, si sta preferendo la politica che lascia elemosinare i lavoratori presso gli imprenditori più commossi, quando questi decidono di pagare loro – una tantum – qualche bolletta della luce in questo periodo di crisi. Oppure essere entusiasti della beneficenza che alcuni di loro decidono per fortuna di elargire.

Tuttavia lo ricordo nuovamente. Nell’altro articolo scrivevo: «Chi si occupa di marketing saprà di cosa parlo, e saprà anche che alla fine il ritorno (ndr, della beneficenza) potrebbe essere maggiore dell’esborso». Il giovane Riccardo Perrone, esperto di marketing e autore tra l’altro della linea degli spassosi spot social della Taffo, lo confermava candidamente nel suo articolo del giorno dopo, sul Sole 24 ore, titolando “Chiara Ferragni non è una star, è un brand. Ecco perché fa beneficenza (e lo dichiara, ndr).

Questa non è la polemica sulla Ferragni. Il suo è solo un caso di cronaca che ispira a parlare di una consolidata realtà imprenditoriale, e della distribuzione e gestione della ricchezza che vi ruota. E anche la realtà di soggetti ben disposti ad accettare beneficenza ed elemosine, e applaudire. E questo è un fatto che ho già argomentato ma che va ulteriormente sottolineato, in quanto è tra quelli che paradossalmente promuovono e legittimano la politica che tartassa impiegati, piccoli imprenditori e autonomi, lasciando che ogni anno aumenti il divario tra questi e i super ricchi filantropi.

Sono paradossi da cui spero si venga fuori presto, con la serenità delle persone che hanno amore per la cultura e la critica ben informata.


📸 base foto: A sinistra alcuni interni del complesso di Ivrea dell’Olivetti (1960, foto Paolo Monti) a destra un negozio monomarca nel 1966 circa (foto Andreafist, Wikipedia)