Ernesto Guevara de la Serna nacque a Rosario, in Argentina, nel 1928, da famiglia benestante e progressista. La madre, una donna colta e di bell'aspetto, lo incoraggiò sempre nelle sue attività.
Si trattava di un ambiente “liberal” e non particolarmente religioso, ragion per cui fu impartita un’educazione laica. Ernesto frequentò scuole pubbliche, dove incontrò bambini poverissimi, sulle cui condizioni iniziò a riflettere fin d'allora. Ebbe sempre un'invincibile inclinazione a combattere le disparità sociali e le ingiustizie quotidiane, magari con marachelle poco accettabili, come distruggere i lampioni a colpi di fionda.
Il ragazzo era di salute cagionevole, a causa dell’asma, ma aveva un’indole spericolata e anche un po’ birbona, come a dire che ne combinava di tutti i colori. La sua maestra elementare ha ricordato che una volta defecò su un tavolo. Nelle attività sportive era sempre in prima linea; in particolare, amava tuffarsi da punti pericolosi.
Studiò medicina e divenne dentista. Conobbe i rifugiati della guerra civile spagnola. Girò l’America latina in lungo e in largo con un amico, in motocicletta, esperienza da cui nacquero i celebri diari, su cui si è fatto un film. Ebbe così modo di verificare le penose condizioni di vita delle popolazioni del continente e di maturare le sue convinzioni sul tipo di sviluppo possibile, solo che aveva idee chiare sul proprio ruolo nel cambiamento: il rivoluzionario di professione. Si confermò in seguito in questa convinzione, dopo essere stato in Africa per fiancheggiare i rivoltosi.
Ebbe tre mogli. La prima, Hilda, peruviana, gli diede una figlia; dopo il divorzio le due si trasferirono in Perù, dove se ne persero le tracce. Della seconda poco si sa, tranne che era una ragazza bella e impegnata nella rivoluzione quanto il marito; probabilmente i due furono uniti dalla lotta sul campo. La terza, Aleida, gli diede quattro figli e fu sua compagna nel periodo del massimo impegno nelle vicende cubane.
Ernesto si beccò l'appellativo di “Che”, nomignolo argentino di cameratismo, e intercalare tipico di Ernesto, affibbiatogli dagli amici cubani. Conobbe Fidel Castro in Messico. Secondo alcune teorie, l’idea iniziale non era esattamente quella di portare il marxismo in giro per il mondo sudamericano. Entrambi provenivano da un ambiente borghese; nauseati dal destino di quei paesi, spesso in mano a dittatori senza scrupoli spalleggiati dagli Stati Uniti, all’inizio furono sospinti al comunismo più per odio verso il capitalismo, che per ideologia vera e propria. Conoscevano i vizi dell’ambiente da cui provenivano ed erano intenzionati, ciascuno a proprio modo, a smontarli pezzo per pezzo. Cominciarono ( e finirono) a Cuba, paese di Fidel. Deposero il dittatore Fulgencio Batista, fantoccio degli USA in modo assai personalizzato, che aveva ridotto la nazione a ritrovo di mafiosi. Egli era riuscito ad annullare del tutto il fascino donatole dagli scritti di Hemingway e perfino il ricordo di ciò che l’isola era stata nei primi anni del secolo, come ricorda, nell'autobiografia, l’attrice Gloria Swanson, che vi aveva vissuto.
Ernesto divenne ministro del nuovo governo castrista, ma l’attività di burocrate non faceva per lui e il potere non lo interessava granché. Tenne per un po’ la presidenza della Banca nazionale di Cuba, dove peraltro lavorò bene, recuperando i crediti congelati dagli Stati Uniti. Ebbe incarichi diplomatici e parlò anche all’ONU, in termini netti e inequivocabili.
Durante il periodo da politico “ufficiale”, decretò l’uccisione di un certo numero di prigionieri, ma ne graziò molti. Si riporta che, in pratica, ne fece giustiziare solo cinquanta su cinquecento, scelti tra i responsabili delle peggiori nefandezze. E' ipotizzabile una crisi di coscienza: l’omicidio, ammesso in guerriglia, a freddo era un’altra cosa e ricordava ciò contro cui combatteva. Ernesto insisteva per un giusto processo, in quei frangenti non precisamente praticabile.
La propaganda avversa ha insinuato che Castro e Che Guevara abbiano avuto dei contrasti e il primo non vedesse l’ora di liberarsi dell’ingombrante delfino, che gli ricordava come la rivoluzione non dovesse trasformarsi in totalitarismo di altro tipo.
Sia come sia, il Che si dimise da tutto, perfino dalla cittadinanza cubana e continuò la propria attività in giro, fino a incappare in un imboscata in Bolivia, dove trovò la morte nel 1967. Il suo cadavere, senza mani, fu improvvisamente “ritrovato” trent’anni dopo e trasportato a Cuba, dove ricevette tutti gli onori del caso.
Ernesto Che Guevara era bello e magnetico; nelle fotografie appare come un consumato modello che posi per una rivista patinata e così la sua immagine è stata tramandata ai posteri. Tutti lo amano o, perlomeno, anche in campo nemico trova degli ammiratori e, naturalmente, delle ammiratrici, ormai attempate. Rappresenta certamente un modello ottocentesco, quasi garibaldino, di pasionario, del tutto disinteressato al potere e al possesso, tenacemente legato alle idee di giustizia e libertà che ispiravano l’azione degli uomini di quell’epoca. Un esempio che ciascuno può seguire, adattandolo a una disposizione onesta o meno.
Oltre l'icona, che dà segni di stanchezza, rimane un'eredità morale che a Cuba nessuno ha mai messo in discussione, nonostante il mondo sia profondamente cambiato.
I dissidenti cubani trapiantati in Florida continuano a campare con i finanziamenti statunitensi e la loro rabbia non sempre è convincente, inquinata com'è dal sospetto di essere parassiti al servizio della propaganda USA.
Altri contrari al regime, liberali e radicali, non vedono l'ora di assistere ad un cambiamento che sanno perfettamente portare in sé germi di pericolosità che già si annunciano. L'Isola non è più un oasi di tranquillità, sia pure a tasso di democrazia ridotto, ma pur sempre garantito ai tempi della guerra fredda. Delinquenza e droga vi hanno fatto ingresso; il turismo ha generato confronti con altre possibilità di vita e quello sessuale non ha nulla da invidiare ai similari del terzo mondo.
In questo panorama, se è auspicabile un'apertura ai diritti civili, alle associazioni sindacali, al voto popolare e all'abolizione della pena di morte, il rischio di far perdere ai cubani il minimo di salute mentale che ancora conservano rispetto ai vicini messicani o caraibici è alto. L'embargo persiste e qualcuno lo preferisce, paradossalmente per motivi opposti: i pro Castro, anche dopo la sua morte, per continuare la lotta pura e dura contro il nemico yankee; i dissidenti per indurre il regime a capitolare. Rimane la musica, ma è solo consolazione, dunque svilita del suo scopo migliore.
Sarebbe bello sapere che ne penserebbe il Che. Forse sarebbe finito in Iraq o in Palestina.